“L’aver sottaciuto o minimizzato un Pirandello fascista è stata la costante della critica di questi ultimi settant’anni. Piaccia o non piaccia, Pirandello fu un fascista convinto”. Al professor Piero Meli non manca la franchezza e la determinazione dello storico più scrupoloso. Luigi Pirandello “Io sono fascista” (Salvatore Sciascia Editore) ne è la conferma lampante, risoluta, inappuntabile. Di primo acchito a colpire non è tanto la tesi centrale del volume nel momento esteso e dettagliato della sua conferma (la convinta adesione dello scrittore di Agrigento al regime mussoliniano eviscerata in diversi contesti della sua vita professionale), quanto la dovizia di particolari storici, la perlustrazione attentissima di fonti, lo scavo documentale peraltro non umanamente impossibile prima d’ora (si legga: non è stato volontariamente fatto da chi ha preceduto Meli per mera necessità politico-intellettuale). Quindi, il metodo. Meli recupera stralci di quotidiani dell’epoca (vado a memoria: Corriere della sera, L’impero, Gazzetta del Popolo, Il giornale d’Italia, La Stampa), nonché testimonianze inedite o perlomeno non ascoltate con attenzione (il figlio di Pirandello, Stefano) per tessere una tela in tre sostanziali capitoli tematici: l’adesione del drammaturgo al fascismo proprio tra il 1924-1925 nell’apice dell’annientamento criminale delle opposizioni; l’infinita querelle sul Nobel vinto sottotraccia quando invece c’era stato l’appoggio sommo dei notabili fascisti; la lettura errata del biglietto testamentario che lo vedrebbe prendere le distanze dal regime quando invece le poche richieste per uno scabro e distaccato commiato erano state scritte addirittura nel 1911. Nelle tracce di cronaca dell’epoca Pirandello è verbalmente aggressivo contro i nemici del Duce, camicia nera indossata sul palco delle celebrazioni, Mussolini “condottiero … senza paragoni nella storia”, a spese del regime a far conferenze in Scandinavia per agevolare la candidatura al Nobel. Solo un esempio concreto per far capire l’incredibile e voluta strumentalizzazione (anche dei più nobili corregionali Sciascia e Camilleri) dell’autore che si sottrae all’agone politico e che da questo non sarebbe stato appoggiato. Meli si concentra su un episodio apparentemente marginale degli ultimi quindici anni di vita di Pirandello sotto il fascismo (morirà nel 1936): l’arrivo in stazione a Roma, in pieno dicembre ‘34, dopo aver ritirato il Nobel dalle mani di Re Gustavo. Il Corriere della sera nel 1962 ne fa un racconto da porto delle nebbie: clima gelido, stazione fantasma, nessuno ad accoglierlo, il vuoto attorno al presunto artista che ha rifiutato il regime dittatoriale vivendo in silenzio la sua avversione. Dall’altro lato la cronaca de Il Giornale d’Italia di quel giorno: binario in festa, la folla di ammiratori e amici, la nipotina che gli corre incontro e gli va in braccio. Propaganda del regime? L’articolo del quotidiano è corredato da un’eloquente foto. E per chi ancora si ponesse il quesito “ma negli scritti di Pirandello non c’è alcun riferimento di appoggio al fascismo”, ecco le parole del maestro nel 1927: “è ovvio però che un fascista esprimerà un’arte fascista, ma non intenzionalmente, bensì come facoltà espressiva, spontanea”. Permetteteci anche un post scriptum: il medaglione d’oro del Nobel di Pirandello sapete dov’è finito? Fin dal 1935 nella bacheca di Mussolini. Voto (a lezione di storia): 8 1/2