L'ANATRA SPOSA - 2/3
I libri vanno sempre letti fino in fondo. A costo di avere uno Scaffale dei Libri più scarno numericamente, ma più ricco qualitativamente. L’anatra sposa di Marta Ceroni (Bompiani) è uno di quei titoli che non vanno messi di lato dopo la classica scrollatina di 30-40 pagine. Bisogna entrarci in contatto epidermicamente al respiro, all’odore, al pulsare della vita nel 1976 (e anno seguente) a Ghirole, paesino della bassa padana, abbastanza vicino a Brescello per tratteggiare vaghi riferimenti politici alla Guareschi (parroci e comunisti), abbastanza lontano da una qualsiasi urbanizzazione progresso di quegli anni per tastarne con l’intelletto l’isolamento temporale e culturale modello new agrarian style (Alessio Torino, Jean-Baptiste Del Amo). La piena del Po, le stagioni che passano, gli argini, le lanche, la cava, i pioppi, il bar del paese sono i drappeggi quasi metafisici di un quadro narrativo stratificato di mansioni semplici (le sartine, il falegname, il postino, le suorine) e denso di personaggi, imperniato su uno scambio simbolico e carnale pennuto/umano tra una giovane mascolina ragazza di campagna e un virgulto pastore di passaggio. Così il racconto della Ceroni invece di incartarsi classicamente tra ruffianerie rurali ruspanti tutte in superficie, prende le distanze dell’emozionalità più scontata, mostra in controluce nascite, morti, svezzamenti, pettegolezzi (dicono nel libro “contenere il tumulto naturale degli eventi”), fino ad accumulare un peso specifico imponente sgorlonian soldatiano tutto impercettibili sussulti e mai colpi di scena, terminologie autenticamente naif (“stato interessante”, “saltafossi”, “fiero malumore”), oggetti d’epoca (il flit, la spuma, le cartoline, l’uovo per cucire le calze) e un’istintiva attrazione sentimental sessuale in sottofinale che si palesa sgorgando antica e profonda nel riflesso dei fossi al tramonto. Voto (rigorosamente dalla casa delle donne di Quadra Pazzaglia): 8