Dice il saggio: “Non si giudica un libro dalla copertina”. “Eccome se si giudica dalla copertina”, spiega Riccardo Falcinelli che ha le idee chiarissime su cosa rappresenti “l’abito” del volume, sia in termini di contenuti che di marketing. Dispiace per il Saggio e anche per il talentuoso designer, ma i fatti contraddicono entrambe. “L’opinionismo” è una pericolosa malattia generata dai social che, per definizione, tolgono tridimensionalità alla realtà e alle sue mille sfumature per ridurla alla bidimensionalità di un Like o di un insulto.
In questa gabbia ristretta, numerosi conigli d’allevamento hanno trovato la loro libertà d’espressione, trasformandosi negli ormai famigerati “leoni da tastiera”. Non che qualcuno prima gli impedisse di esprimersi, ma vuoi mettere la fatica di dover argomentare con la leggera, anzi leggerissima supercazzola social? Non c’è dunque da stupirsi se oggi un libro viene lapidato o beatificato prima ancora di finire in libreria. Prima ancora che si sia mai vista la sua copertina e molto, ma molto prima di essere letto.
Michele Santoro, col suo ultimo libro, credo si sia divertito a lanciare una coscia di prosciutto nella gabbia, scegliendo un titolo che fa incazzare a prescindere: Nient’altro che la verità. Il solito impertinente, ma ottiene ciò che vuole. Il libro non era ancora sugli scaffali delle librerie ed era già stato asfaltato da una pioggia di improperi: “vergogna, depistatore, vecchio rincoglionito, avvelenatore di pozzi, venduto” e ancora “vergogna, sparisci, mi fai schifo!”. Alla fine, nella foga il prosciutto, invece di andare nella pancia dei leoni, gli è rimasto sugli occhi, contribuendo a portare quelle 400 pagine in classifica in meno di una settimana.
Un libro è il frutto dell’esperienza di chi lo scrive, ma il suo valore profondo sta negli occhi di chi lo legge ed è giusto così. Vale lo stesso per i film, per i quadri o per qualsiasi altra opera artigianale. È per questo che non posso dire se è bello o se è brutto, posso però dire perché secondo me andrebbe letto. L’anno prossimo saranno passati trent’anni dalla stagione delle stragi e chi ha voglia di capire da dove siamo partiti e dove siamo arrivati, è già un ottimo candidato lettore.
La cabina di regia è quella dell’autore che, comunque la pensiate, questi tre decenni li ha raccontati in presa diretta. Oggi, con la penna li ricuce insieme seguendo il filo delle sorti dell’antistato per eccellenza: Cosa Nostra. La mafia siciliana, torna al centro del dibattito: Santoro 1, delatori 0.
Il binario della narrazione è doppio, in un gioco di specchi nel quale si intrecciano il vissuto di un killer, un meticoloso cecchino della mafia catanese, con quello di un meticoloso giornalista con una lingua che dovrebbe andare in giro con il porto d’armi. Due anime cresciute sotto al bollore di un vulcano la cui rabbia diventa fluida, traducendosi in sangue per il primo e in inchiostro per il secondo.
Maurizio Avola è il compagno di viaggio che non ti aspetti. Pentito e ripentito a singhiozzo, paga il peccato originale di aver taciuto le sue verità per troppo tempo. “Un pataccaro”, mi spiegano amici che stimo e che conoscono la mafia. Un sinistro figuro che esclude la presenza fisica di uomini dell’Intelligence da via D’Amelio il pomeriggio del 19 luglio 1992, vantandosi di essere stato lui a lasciare quel cratere.
“Che i servizi non c’erano lo penso anch’io – mi spiega il cacciatore di latitanti, il dottor Alfonso Sabella – ma escludo anche che ci fosse Avola!”. Ci muoviamo in un ambiente impantanato, viziato da un acclarato e vergognoso depistaggio, “il più colossale della nostra storia giudiziaria”. La prudenza è d’obbligo, ma perché le varie fazioni dell’antimafia, magicamente riunite in una inedita armonia, vogliono il silenzio o peggio la censura di Avola e del libro di Santoro?
Se davvero siamo intenti nella ricerca di una verità ancora oscura, perché vogliamo precluderci la possibilità di sondarla in ogni sua direzione e pretendiamo invece di seguire un’unica inesorabile via? Chi ha paura di verificare se i soggetti che Avola inserisce sul luogo della strage confermano o meno la loro presenza? Che rischio corriamo nel mostrare a Gaspare Spatuzza una foto dell’epoca di Aldo Ercolano, per confermare o escludere definitivamente la possibilità che ci fosse lui, “stiloso” boss catanese braccio destro di Santapaola e non un agente dei servizi, nel garage dove si è imbottita la Fiat 126?
Nessun pentito, Buscetta incluso, è mai stato riscontrato al 100%, ma negare che ciascuno di loro abbia fornito fondamentali elementi di verità è uno schiaffo in faccia a Falcone da parte di chi è già in fila per la passerella del 23 maggio e di chi si batte il petto in difesa dell’ergastolo ostativo, come unico mezzo di contrasto a una mafia che non c’è più, senza neanche chiedersi quale forma e quale direzione abbia preso oggi e di conseguenza di quali nuovi strumenti avremmo bisogno per contrastarla, anziché continuare ad ignorarla.
Santoro, fra le righe del suo libro semina svariate “mine antiuomo”, stimola rabbia, indignazione e plausi da fans in delirio come ai tempi dei Beatles. Si mette in gioco, si spoglia delle sue vecchie convinzioni, le rimette in discussione, abbandona l’abito del comunista forcaiolo e svita dal piedistallo intoccabili simboli dell’antimafia e della giustizia. Da lui proprio non te lo aspetti, già questo meritava un titolo!
Maestro artificiere della comunicazione non riesce mai a passare inosservato e se tutto ciò servisse anche solo a imporre il tema nell’agenda politica, basterebbe a fare del suo libro, scritto con la collaborazione di Guido Ruotolo, un capolavoro.
È a questo che serve il giornalismo, per tutto il resto c’è la magistratura.