Nella bozza di decreto con "Disposizioni urgenti in materia di transizione ecologica" si esclude la partecipazione delle Soprintendenze all'autorizzazione dei nuovi impianti energetici da realizzare "in aree contermini" a quelle vincolate. Archeologi e associazioni: "Si impedisce di fatto la tutela, rischio procedura d'infrazione". Negli altri casi è imposta una tagliola di 30 giorni
Nel 2018 la Regione Basilicata ha negato l’autorizzazione a realizzare un parco eolico a Corbo, nel territorio di Genzano di Lucania. Salvando l’area del castello Monteserico da aerogeneratori alti quasi 150 metri. Nel 2020, solo l’intervento del consiglio dei ministri ha scongiurato la realizzazione di un parco fotovoltaico esteso 250 ettari a Pian di Vico di Tuscania. Salvando dai pannelli gli insediamenti e le necropoli etrusche e romane del Fosso Arroncino di Pian di Vico, oltre che la torre medievale di Castel d’Arunto e il borgo e la chiesetta medievali di San Giuliano. Dal Veneto alla Sicilia sono numerosi i progetti di parchi eolici, ma anche fotovoltaici, rigettati dalle autorità. Come accaduto anche per diversi impianti idroelettrici e geotermoelettrici. Il motivo? Il loro impatto sul paesaggio, naturale e storico-archeologico. O almeno, finora è stato così.
La bozza di decreto legge “Disposizioni urgenti in materia di transizione ecologica”, presentata il 28 aprile scorso dal ministero guidato da Roberto Cingolani, mostra invece un intento diverso. La giustificazione, esplicitata all’articolo 4 del provvedimento che contiene una delle riforme necessarie per far marciare a pieno ritmo gli investimenti del Recovery plan, è di accelerare i procedimenti di valutazione e autorizzazione ambientale, “con il fine del raggiungimento degli obiettivi nazionali di efficienza energetica contenuti nel Piano nazionale Integrato per l’Energia e il Clima e nel Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, con particolare riguardo all’incremento del ricorso alle fonti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili…”. Insomma, bisogna fare presto. Richiesta legittima, se la celerità non rischiasse di contrastare il rispetto delle tutele. La norma infatti propone di apportare una modifica assai significativa al Testo unico dell’ambiente, il decreto legislativo 152 del 2006.
Una volta predisposto lo schema di Valutazione di impatto ambientale, si legge, “nei successivi trenta giorni il direttore generale del ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare adotta il provvedimento, previa acquisizione del concerto del competente direttore generale del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo entro trenta giorni, decorso il quale il concreto si intende acquisito”. Insomma, gli uffici delle diverse Soprintendenze hanno trenta giorni per fornire il loro parere. Che risulterà insignificante oltrepassato quel termine. Prima di esprimere un qualsiasi parere al riguardo, può risultare utile osservare gli organici in forza alle Soprintendenze, dichiaratamente insufficienti, senza grandi distinzioni tra una Regione e l’altra.
Non è tutto, come dimostrano le aggiunte proposte al Decreto legislativo 387 del 2003: si specificano le circostanze nelle quali “il ministero della cultura e le Soprintendenze partecipano al procedimento unico”. Accade, ovviamente, quando si tratta di “progetti aventi ad oggetto impianti alimentati da fonti rinnovabili localizzati in aree sottoposte a tutela”. Ma anche “nei casi in cui, a seguito di istanza di autorizzazione, la Soprintendenza verifichi che l’impianto ricade in aree interessate da procedimenti di tutela ovvero da procedure di accertamento della sussistenza di beni archeologici in itinere alla data di presentazione dell’istanza di autorizzazione unica”. In sintesi, sembra non sia possibile non tener conto di vincoli esistenti oppure in corso di apposizione. Ma in compenso “la partecipazione è esclusa (…) per i procedimenti di autorizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili da realizzare in aree contermini a quelle sottoposte a tutela …”. Con quel “contermini” si condannano una enormità di aree dall’evidente valore paesaggistico. Aree confinanti con luoghi dal riconosciuto significato storico-artistico-archeologico. Proprio come il Castello Monteserico a Genzano di Lucania o le necropoli del Fosso Arroncino a Pian di Vico, o centinaia di altri luoghi della Cultura disseminati dall’estremo nord all’estremo sud.
Spaventati dalle possibili conseguenze, le associazioni del Tavolo di coordinamento delle rappresentanze del settore Archeologia e le Consulte universitarie hanno redatto un documento inviato ai ministri della Cultura, della Transizione Ecologica, delle infrastrutture e dei Trasporti. “La proposta determina una fortissima compromissione dell’esercizio della tutela sul patrimonio paesaggistico ed archeologico nazionale, oltre che sullo stesso dettato costituzionale”, scrivono . Spiegando che, “così come formulato, il disegno di legge impedirebbe de facto la tutela paesaggistica, sottraendo alla tutela immobili e aree di notevole interesse pubblico”. E risulterebbe “altrettanto esiziale per la protezione del patrimonio archeologico, impedendo l’esecuzione di controlli preventivi…”, dal momento che “per tutte quelle aree dotate di potenziale archeologico, ma non oggetto di dichiarazione di interesse, le Soprintendenze non sarebbero consultate, con il rischio concreto di una irrimediabile perdita della memoria storica del Paese”. E non solo quello. Perché l’adozione delle nuove misure “ci esporrebbe al rischio di procedura di infrazione da parte dell’UE, legata al mancato rispetto della Convenzione europea sul patrimonio archeologico di cui l’Italia è firmataria e da cui le norme sull’archeologia preventiva derivano”.