Si chiude il processo Ambiente Svenduto, che vede alla sbarra 47 imputati e scrive la storia di inquinamento e morte nel capoluogo ionico. A due giorni dalla camera di consiglio, il direttore generale di Arpa Puglia ha rinunciato alla prescrizione e reso dichiarazioni spontanee: "Non ho mai subito pressioni da Vendola, ma nel 2010 la Regione Puglia scelse di non seguire le nostre misure contro l'inquinamento. È come se l’autorità politica, avendo un vaccino in mano, rinunciasse a usarlo per contenere un’epidemia"
“Non ho mai subito pressioni da Vendola, ma nel 2010 la Regione Puglia scelse di non seguire le indicazioni di Arpa contro Ilva”. È l’ultimo j’accuse di Giorgio Assennato, ex direttore generale di Arpa Puglia e imputato nel processo “Ambiente venduto” sul disastro ambientale e sanitario di Taranto. Affermazioni che risalgono a soli due giorni fa, quando l’ex dg ha reso dichiarazioni spontanee dinanzi alla Corte d’assise che dovrà decidere se condannarlo o meno a per l’accusa di favoreggiamento nei confronti dell’ex governatore Vendola. La figura di Assennato è forse quella più controversa tra gli imputati coinvolti nel processo contro la fabbrica gestita tra il 1995 e il 2012 dal Gruppo Riva. Da un lato, nelle intercettazioni, è dipinto dalla dirigenza Ilva come l’uomo da “distruggere” perché con i suoi provvedimenti non solo ha svelato i danni causati dallo stabilimento, ma soprattutto ha proposto alla Regione di intervenire limitando la produzione dell’acciaio. Dall’altro lato, però, per la procura Assennato avrebbe favorito Vendola negando le pressioni che l’ex Governatore gli avrebbe rivolto per ammorbidire la sua linea nei confronti dell’Ilva. Per lui l’accusa ha chiesto la condanna a 1 anno di carcere e Assennato e, di tutta risposta, due giorni fa ha annunciato di voler rinunciare alla prescrizione, certo di aver “sempre difeso la salute degli abitanti del quartiere Tamburi”, il rione situato a pochi metri dalle ciminiere.
Ma nel suo ultimo intervento, in realtà, l’ex dg dell’agenzia pugliese ha detto molto di più. Ha ribadito di non aver mai ricevuto pressioni da Vendola, ma ha comunque lanciato un duro attacco alla Regione guidata allora dall’ex leader di Sinistra Ecologia e Libertà. Un’accusa che a distanza di 11 anni dai fatti, sembra disegnare una nuova verità. Mai ricostruita, neppure dall’accusa. Assennato, infatti, ha ricostruito come, il 15 luglio 2010, all’insaputa di tutti e anche sua, i vertici regionali incontrarono la proprietà dell’Ilva, in quel periodo travolta dall’emergenza sul benzo(a)pirene. Assennato ha spiegato che dopo quell’incontro l’amministrazione Vendola con l’allora assessore all’ambiente Lorenzo Nicastro avrebbe svuotato “di senso le nostre relazioni”. Cosa significa? Che la Regione decise di non dare seguito alla proposta di Arpa di ridurre la produzione dell’Ilva nei giorni di vento, quando le polveri e le emissioni colpiscono in maniera più massiccia la città. E così avrebbe perso l’occasione di riscrivere, da quel momento, la gestione della crisi ambientale a Taranto. Quella mattina di luglio, ai cronisti, Assennato appare dimesso: “Ero rassegnato non per le inesistenti pressioni, ma perché vedevo fallire il mio programma, da medico di sanità pubblica, di risanamento della qualità dell’aria dei Tamburi”. E per quella stessa ragione per cui Assennato era abbattuto, l’assessore Nicastro, come emerge da articoli finiti agli atti del processo, era invece trionfante. Dinanzi alla Corte d’assise per ricordare quella scelta della giunta Vendola, Assennato ha fatto un esempio forte e attuale: “È come se l’autorità politica, avendo un vaccino in mano rinunciasse a usare il vaccino per contenere un’epidemia”. Secondo Assennato, insomma, la Regione guidata allora da Vendola, avrebbe potuto attuare una soluzione efficace, ma scelse di non farlo.
Una verità che Assennato aveva già accennato il 4 marzo 2019 quando fu interrogato nell’aula bunker, ma che questa volta ha ribadito in modo più chiaro e incisivo. La nuova ricostruzione di quei giorni d’estate è stata consegnata ai giudici della corte d’assise che in queste ore entreranno nella camera di consiglio per emettere la sentenza di primo grado sul procedimento che vede alla sbarra 47 imputati. Dopo cinque anni di processo, decine di imputati, centinaia di udienze, migliaia di documenti, infatti, la Corte d’assise sta per dare vita all’ultimo atto prima del verdetto. Assolvendo o condannando persone e società coinvolte nell’inchiesta, la corte chiarirà se lo sfregio mortale inflitto territorio ionico e alla salute dei suoi abitanti è da addebitare o meno a chi, tra il 2012 e il 2013, è finito sotto accusa. Per la procura di Taranto non c’è dubbio: “Solo per i soldi” il Gruppo Riva “ha stritolato il territorio diffondendo malattia e morte”. Gli esponenti della famiglia lombarda che nel 1995 acquisì la fabbrica dallo stato, per l’accusa, avrebbero scatenato “una potenza inaudita” contro “una città già martoriata”. Il pool di inquirenti composto dai pubblici ministeri Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano ha chiesto ben 35 condanne per quasi 4 secoli di carcere. Le pene maggiori sono state avanzate proprio nei confronti di Fabio e Nicola Riva, rispettivamente a 28 e 25 anni. “Cosa diciamo a quella madre che non ha più il suo bambino? – ha chiesto il pm Buccoliero nella sua ultima replica dinanzi ai giudici togati e popolari – Guardi, signora, che tuttavia il pm10 era nella norma, che la diossina e il benzo(a)pirene e gli altri inquinanti dell’Ilva erano nella norma. Questa sarà la risposta della Corte di Assise a quella madre? Scusate, ma non lo crediamo”. Per l’accusa è stata la gestione dei Riva, finalizzata al massimo profitto col minimo sforzo, a causare “lo sversamento di una quantità imponente di emissioni diffuse e fuggitive” che avrebbe rilasciato sostanze nocive come “Ipa, benzo(a)pirene, diossine, metalli ed altre polveri”, generando “eventi di malattia e morte nella popolazione”. Nel corso del processo, inoltre, la procura ha raccontato come in alcuni casi le polveri degli elettrofiltri, zeppe di inquinanti, sarebbero state vendute come concime dei terreni ad aziende anche del Nord Italia. Ma per la difesa le cose non stanno così. Il collegio difensivo ha infatti sostenuto attraverso una serie di studi che in realtà gli inquinanti ritrovati nei terreni, negli animali abbattuti e nelle acque intorno allo stabilimento non sarebbero di provenienza Ilva. Attraverso una serie di consulenze, infatti, ha provato a dimostrare che in realtà quegli inquinanti sarebbero stati diffusi da altri impianti industriali presenti nel territorio tarantino. I difensori, insieme ai documenti, hanno prodotto anche le testimonianze di un ex consulente della procura che ha parlato dell’insabbiamento di un fascicolo di indagine che indicava nelle attività della Marina militare le azioni che avrebbero avvelenato il Mar Piccolo di Taranto.
La procura, inoltre, ha chiesto altri 28 anni di carcere per l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva e ritenuto dalla procura la “longa manus” dei Riva: a lui e ad altri, per l’accusa, era affidato il compito di tenere l’Ilva al riparo dalle accuse degli ambientalisti o, più in generale, da azioni politiche che compromettessero produzione e fatturato. La corte d’assise, inoltre, dovrà valutare anche la posizione dei dirigenti, di ex consulenti della procura ritenuti infedeli e dei diversi esponenti politici finiti alla sbarra. E tra gli imputati, come detto, c’è anche lo stesso Vendola: per lui l’accusa ha chiesto 5 anni di carcere per le pressioni su Assennato. Il suo difensore, l’avvocato Nicola Muscatiello, però, ha chiesto la sua assoluzione spiegando che non solo non vi è stata alcuna pressione su Assennato, ma ha affermato che durante l’amministrazione Vendola si sarebbe passati “da una sorta di medioevo ambientale ad una nuova stagione” grazie ai provvedimenti da lui voluti. Altri 4 anni sono stati richiesti per l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, accusato di aver fatto pressioni sui dirigenti perché concedessero l’autorizzazione alla discarica interna alla fabbrica, che in realtà fu poi concessa dal Governo Renzi con uno dei decreti Salva Ilva. I difensori di Florido, gli avvocati Carlo e Claudio Petrone, hanno invece sostenuto che i dirigenti “non abbiano mai subìto nessuna ‘costrizione’, nemmeno episodica o sistematica” e l’ex presidente “manifestò solo la necessità di chiudere quanto prima la vicenda, senza assumere nessun tipo di atteggiamento suggestivo che fosse mirato a concludere con una decisione favorevole per l’Ilva”. Su queste e altre posizioni, quindi, la Corte presieduta dal giudice Stefania D’errico e a latere Fulvia Misserini, dovrà emettere il suo verdetto. Una sentenza di primo grado che, a prescindere dal contenuto, sarà poi impugnata da una o da entrambe le parti, ma che forse potrà fornire una prima verità su ciò che la comunità ionica ha subito dal 1995. E che, al di là del processo penale, sembra non avere ancora fine.