Non era mai successo in precedenza mi pare, almeno qui in Italia, che un cortometraggio venisse passato in sala come singolo spettacolo da sbigliettare. Dal 13 maggio la Warner Bros si è lanciata in questa sperimentazione impensabile al netto del catastrofico affaire Covid. Ma a volte sbocciano fiori ove meno li si immagina, così The Human Voice, dal red carpet veneziano 2020, ha varcato le porte del box office italiano.
Ebbene sì, e sgomitando alla pari con lungometraggi da Oscar e non, ha raggiunto l’ottavo posto degli incassi settimanali e il terzo di mercoledì. Si presenta come uno dei lavori più visionari di Pedro Almodovar, metafora ferale e traumatica sulla fine di un amore, inscatola geometrie meta-teatrali di un appartamento ed elaborazione emotiva cangiante di una donna oramai sola. Tra i colori almodovariani netti, saturi e contrastati nei sentimenti dei personaggi quanto nelle messe in scena, quello di Tilda Swinton si svela un one woman show raffinato e potente. Lei attrice sconfinata quanto il suo personaggio risulterà confinato nel proprio dolore da domare. Ma è un corto, più se ne parla, meno si gusta. Meglio guardarlo che dilungarsi in parole.
Di parole invece, e che parole, si è servito Il cattivo poeta, opera prima di Gianluca Jodice e dal 20 maggio in 200 sale italiane con 01 Distribution. “Io sono vecchio, e i vecchi desiderano solo la loro sopravvivenza” confessa il Gabriele D’Annunzio, avido di vita ma giunto vicino al termine della propria.
Ne incarna cranio e vizi iconici un Sergio Castellitto ben mescolato con il poeta abruzzese, anche grazie a felici improvvisazioni sullo script. Lasciando da parte l’inutile D’Annunzio del 1986 con quel povero Cristo di Robert Powell, siamo finalmente giunti a un buon biopic sul Vate. “Abbiamo tutti bisogno di un balcone dove recitare il ruolo di protagonista. Ma ci sono buoni attori e cattivi attori…” recita il vecchio Comandante al giovane federale fascista di Brescia inviato dal ministro Starace in riva al Garda per spiarlo. Al termine di tre lustri passati al Vittoriale e dopo una vita di avventure letterarie, politiche e guerresche, D’Annunzio è un uomo vecchio che resiste al tempo vivendo di sfarzo, donne e cocaina. Il fascio si è rivelato tutt’altro rispetto ai suoi sogni e l’ex-amico Mussolini gli cammina davanti come un’ombra cupa.
Jodice ha trovato diverse similitudini tra Dracula con il suo castello e D’Annunzio con il suo Vittoriale esiliato dal mondo. Così il Jonathan Harker di Stoker diventa per noi il giovane federale Giovanni Comini. Nulla di horror, si tratta solo di una similitudine nello schema narrativo. Qui, oltretutto, si affronta una storia vera quanto sconosciuta ai più, con autore e attori profondamente documentati tramite opere, lettere e articoli del Vate. Le parole originarie di D’Annunzio impreziosiscono infatti la sceneggiatura. E il protagonista di fatto, a sorpresa, si rivela il bravo Francesco Patanè, nei panni del federale, sua prima parte cinematografica di rilievo. Un giovane che inizia la vita di fronte a un vecchio che l’ha esaurita, i volti antichi dei due interpreti e il regime terzo incomodo, che proprio durante quell’apice di vanagloria e violenze segrete iniziava a percepire le prime scosse sommesse del dissenso.
Non ci troviamo di fronte a un’opera pop come la Marie Antoniette della Coppola, o rock come il recente Miss Marx della Nicchiarelli. Il cattivo poeta mostra una visione lineare ma piena di chiaroscuri, classica sia nella forma delle immagini che nella sostanza. Non presenta guizzi inventivi rivoluzionari la regia perché mantiene forte un linguaggio filmico che sarà più vicino a un pubblico non più giovane. In questo Matteo Rovere, produttore per la Ascent Film, dimostra occhio lungo nella multiforme targetizzazione in base a generi, piattaforme e tipologie di pubblico nei progetti cinematografici ai quali lavora.