Serve un cambio di passo da parte dell‘Europa sulla gestione dei flussi migratori. Lo pensa l’Italia, che si è esposta soprattutto con l’ala del governo che fa capo al Pd, e lo pensano, in generale, tutti i Paesi cosiddetti di ‘primo ingresso’ sia nel Mediterraneo che, in alcuni casi, lungo la cosiddetta Rotta Balcanica. Chiedono tutti maggiore “solidarietà europea”, una solidarietà che però non hanno ritrovato, nonostante le promesse, nel nuovo Patto sulla migrazione proposto e sbandierato dalla squadra guidata da Ursula von der Leyen. “Non ci piace l’accordo che l’Europa sta proponendo sulle migrazioni e dobbiamo assolutamente cambiare il sistema”, aveva detto a fine aprile il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Affari europei, Vincenzo Amendola, anticipando che le trattative in sede di Consiglio Ue sarebbero state lunghe. Così tra ancora troppe responsabilità in capo ai Paesi di primo ingresso, contributi giudicati insufficienti da parte degli altri Stati membri e la mancanza di un’operazione europea nel Mediterraneo, la nuova proposta europea per superare gli Accordi di Dublino non soddisfa il governo di Roma.
“Missione compiuta”, aveva esultato il vicepresidente della Commissione, Margaritis Schinas, dopo il via libera del nuovo Patto. “Una soluzione europea per ricostruire la fiducia tra gli Stati membri e ripristinare la fiducia dei cittadini nella nostra capacità di gestire la migrazione come Unione”, l’aveva presentato invece la presidente von der Leyen. Il governo italiano, invece, nel nuovo documento sembra vedere solo un modo meno sfacciato di delegare la gestione dei flussi migratori da Africa e Medio Oriente ai Paesi di confine.
Innanzitutto, Roma ritiene che siano totalmente insufficienti le modifiche riguardo al ruolo dei Paesi di “primo approdo”, quelli che secondo il Trattato di Dublino hanno in carico la gestione delle richieste d’asilo del migrante, la sua accoglienza e tutte le vicende legali che ne conseguono. La Commissione ha proposto la creazione di una “agenzia Ue per l’asilo”, ma starà comunque ai Paesi d’entrata, con l’aiuto di questa agenzia, identificare, registrare, svolgere i controlli sanitari e di sicurezza delle persone alle frontiere esterne e raccoglierne le impronte digitali da inserire nel database Eurodac. Un carico di lavoro importante se i flussi dovessero tornare a numeri importanti come nel 2015-16. Inoltre, lo Stato di primo approdo dovrà già fare una scrematura entro cinque giorni dall’arrivo tra coloro che hanno la possibilità di vedersi riconosciuto l’asilo, che dovranno comunque seguire l’iter giudiziario connesso, e chi invece difficilmente potrà ottenerlo. Per i secondi saranno avviate le procedure di rimpatrio, sempre a carico del Paese d’ingresso, che dovranno essere completate in 12 settimane. Solo nel caso in cui il migrante abbia un legame con un determinato altro Stato membro (famiglia, titolo di studio) potrà essere mandato là a terminare la procedura.
È per coloro che, invece, vengono ritenuti idonei ad avviare l’iter per la richiesta d’asilo che entra in gioco la “solidarietà” europea pensata da Bruxelles per soddisfare le richieste dei Paesi di confine, da anni ormai impegnati a spingere per una redistribuzione delle persone entrate in territorio europeo tra i 27 Stati membri. È proprio questo contributo obbligatorio ma “flessibile”, come è stato definito dalla stessa Commissione, a non soddisfare però le richieste di Paesi come l’Italia. Gli altri Stati membri, infatti, potranno decidere se contribuire offrendosi per un ricollocamento delle persone “vulnerabili” appena arrivate (opzione alla quale in pochi ricorreranno, vista l’opposizione dura di diversi governi ai ricollocamenti previsti dalla prima, e poi naufragata, riforma di Dublino); se “sponsorizzare i rimpatri”, che avverranno comunque dal Paese di primo approdo ma gestiti da uno Stato terzo che dovrà sbrigare la pratica entro 8 mesi per non ritrovarsi a dover ospitare il migrante; oppure se inviare personale, fondi, mezzi rifornimenti per la gestione delle procedure allo Stato di primo approdo. Una formula, quest’ultima, che ricorda in parte l’accordo tra Ue e Turchia per la gestione dei rifugiati siriani: un’ipotesi che poco piace ai Paesi come l’Italia che così si ritroverebbero comunque a dover gestire i flussi quasi autonomamente, ma che rischia di diventare quella preferita da tutti quegli Stati che non si trovano ai confini esterni dell’Ue. Solo in una situazione ritenuta “critica”, le maglie si restringeranno: i Paesi dovranno decidere se accogliere una quota di migranti (in questo caso non solo i vulnerabili) o se sponsorizzare i rimpatri. In caso di offerte insufficienti, la Commissione potrà correggere d’ufficio quanto proposto dagli Stati, ma non vi sarà mai obbligo di redistribuzione. Punto, questo, sul quale i Paesi del blocco di Visegrad, ma non solo, non hanno alcuna intenzione di cedere per evitare problemi di consenso interno.
Bruxelles applica però un distinguo tra i migranti che arrivano autonomamente sulle coste italiane, con i cosiddetti “sbarchi fantasma” che rappresentano al momento la maggioranza, e quelli salvati in mare dalle navi delle ong. Per quest’ultimi non è previsto alcun controllo rapido iniziale, ma viene avviata automaticamente la procedura di solidarietà che, così, prevede la redistribuzione almeno dei vulnerabili. Un elemento che facilita le operazioni dei Paesi di primo ingresso, anche se si tratta di una minoranza di casi. Questo perché, e anche su questo il governo italiano si è esposto in prima persona, non è mai stata ripristinata una vera e propria missione europea nel Mediterraneo, come lo erano Mare Nostrum e Sophia, visto che l’attuale Operazione Irini ha come principale obiettivo quello di far rispettare l’embargo sulle armi alla Libia. “Questo è un presente che dobbiamo cambiare perché non ci sono missioni europee, noi stiamo negoziando, il negoziato non è facile, non ci piace l’accordo che l’Europa sta proponendo sulle migrazioni e dobbiamo assolutamente cambiare il sistema. Non è assolutamente un tema da osservatori, è un duro negoziato e noi vogliamo che l’Europa si organizzi e si strutturi in termini di solidarietà e responsabilità nei suoi confini”, aveva infatti attaccato Amendola che, però, a differenza di alcuni suoi colleghi di partito come anche il segretario Enrico Letta, non vede nella possibilità di lavorare per una modifica dei Trattati (come ad esempio l’eliminazione del veto in sede di Consiglio europeo) una soluzione al problema dell’immobilismo di Bruxelles su temi di primaria importanza come l’immigrazione.
L’altro punto fondante del Piano riguarda la cooperazione con i Paesi di origine e transito, per aiutarli a combattere le cause delle migrazioni (povertà, desertificazione, guerre), a rafforzare la lotta ai trafficanti e al controllo delle proprie frontiere e applicando o stipulando nuovi accordi di rimpatrio. Si parla però anche di vie “legali”, i corridoi umanitari, sia per i profughi in Paesi terzi che per “talenti” di cui l’Europa ha bisogno.
La discussione della proposta sarà però lunga e difficile, vista l’intransigenza di alcuni Stati membri sul tema dei ricollocamenti e la necessità per quelli di confine di alleggerire il carico di persone da dover gestire, soprattutto con il nuovo aumento degli sbarchi che dovrebbe continuare a crescere con l’arrivo dell’estate. “Tutti gli Stati Ue non accetteranno mai i ricollocamenti obbligatori, questo lo sappiamo”, ha dichiarato Schinas. quindi non rimane che trovare il giusto, seppur precario, equilibrio tra le parti interessate. Avendo strappato l’ok alle vie preferenziali di solidarietà per i migranti salvati in mare, un obiettivo dell’Italia e degli altri Paesi di confine potrebbe essere proprio quello di alzare questa percentuale, magari ottenendo l’avvio di una nuova missione europea nel Mediterraneo. “Enrico Letta – aveva dichiarato Amendola – ha parlato di un Next Generation sull’immigrazione. Noi vogliamo un accordo a livello europeo”. Ma per i Paesi come l’Italia è ancora difficile intravedere, sia nel Patto che nella durezza del confronto, la “solidarietà europea” a cui ormai da anni si fa appello.