Nel 1992 dopo le stragi di mafia di Capaci e di Via D’Amelio, si manifestò l’urgenza di reprimere le azioni mafiose in modo più duro. Da ciò, e grazie proprio alle idee dei due giudici Falcone e Borsellino, nacque il cosiddetto ergastolo “ostativo” (alias fine pena “mai”), la cui disciplina è contenuta nell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario.

La norma prevede che il detenuto che si è reso responsabile di reati molto gravi, quali quelli di matrice mafiosa e terroristica non possa godere di determinati permessi (come il lavoro esterno, i permessi premio, la liberazione condizionale, la semilibertà e le misure alternative alla detenzione) a meno che, ai sensi dell’art. 58-ter o.p., non collabori con la giustizia.

Questo principio fondamentale, tuttavia, nel giro di due anni, dopo trent’anni di vita, è stato completamente smantellato, tanto che non ne rimangono neanche le briciole.

Dapprima con la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha ravvisato una violazione dell’art. 3 della Cedu, ritenendo la legge di cui all’art. 4-bis o.p. consistente in un trattamento degradante ed inumano, ed in seguito con la Corte Costituzionale, che nel 2019, ha dichiarato illegittimo l’ergastolo ostativo con riferimento anche ai condannati per delitti di mafia, riconoscendo la possibilità agli stessi di accedere ai permessi premio, anche senza collaborazione, laddove il magistrato di sorveglianza ne verificasse i requisiti, tra cui la piena prova data dal detenuto di partecipare al percorso rieducativo.

Successivamente – il 15 aprile 2021 – la Consulta ha stabilito che l’art. 4-bis o.p. è incostituzionale perché in contrasto con gli art. 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Cedu, concedendo al Parlamento un anno di tempo per modificare la normativa (entro maggio 2022).

Questo è l’epilogo della storia: l’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione.

Sarà il legislatore a decidere quali ulteriori elementi possano sostituire la collaborazione e quali correttivi dare per rendere l’intero sistema delle pene per i mafiosi più efficace e coerente.

Ed è quello che è stato fatto depositando in Parlamento, alla Camera, una proposta di legge a prima firma Movimento 5 stelle, meglio dire l’unica e la sola. È stata presentata dai colleghi Vittorio Ferraresi, Eugenio Saitta e Marco Pellegrini, il 18 maggio, nel giorno in cui Giovanni Falcone avrebbe compiuto 82 anni.

Un segnale importante perché deve essere chiaro a tutti, soprattutto all’interno delle Istituzioni che l’imponente eredità lasciata da Paolo Borsellino e da Giovanni Falcone, che ha reso la nostra legislazione la più avanzata a livello europeo e mondiale nel contrasto alla criminalità organizzata, a trent’anni di distanza, non può essere sconfessata dalla sera al mattino.

Con questa proposta di legge si gettano le basi per un “nuovo” ergastolo che fissa paletti stringenti per la concessione dei benefici: sia in merito ai permessi premio, sia per quanto concerne la liberazione condizionale.

Paletti che sono stati delineati grazie anche all’importante lavoro della Commissione antimafia e che sono contenuti nella relazione sull’ art. 4 bis o.p., citata nell’ordinanza n.97 della Consulta, di cui mi onoro di essere stata relatrice assieme al Presidente Pietro Grasso. Criteri che sono stati in gran parte assorbiti in questa proposta di legge.

In essa si stabilisce, infatti, che per accedere ai benefici penitenziari si debba dare dimostrazione rafforzata, con onere della prova positiva a carico del detenuto, della mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata terroristica o eversiva, e, comunque, con il contesto in cui il reato è stato commesso, nonché di escludere il pericolo di ripristino di tali collegamenti, tenendo conto delle circostanze personali ed ambientali. Prova ulteriore rispetto alla mera dissociazione, alla buona condotta carceraria, al percorso rieducativo, al trascorrere del tempo e, all’integrale adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato o provando la assoluta impossibilità di tale adempimento.

La prova rinforzata sarà necessaria anche per il risarcimento dei danni alle vittime per quanto concerne la disponibilità e la provenienza delle risorse. Dovrà gravare, pertanto, sul detenuto l’onere di fornire allegazioni, basate su elementi fattuali precisi, concreti ed attuali.

Vengono richiesti, inoltre, pareri obbligatori della Direzione Distrettuale Antimafia e del Procuratore Nazionale Antimafia, che avranno un ruolo centrale per la concessione dei benefici penitenziari a detenuti per gravi reati come quelli di mafia o terrorismo. Concessione che richiederà una motivazione sempre rafforzata da parte del giudice di sorveglianza che si dovrà esprimere.

Si prevede, poi, una delega al governo per accentrare tutte le decisioni in materia di valutazione dell’accesso ai benefici presso il Tribunale di sorveglianza di Roma, con una sezione dedicata e un contestuale adeguamento e rafforzamento della pianta organica considerato che lì già convergono tutte le istanze relative al 41 bis o.p. La sezione dovrà decidere collegialmente e con la partecipazione del Procuratore nazionale antimafia e del Procuratore presso il Tribunale del capoluogo del distretto dove è stata emessa la sentenza, entrambi competenti per l’eventuale ricorso per Cassazione.

Questo accentramento si rende indispensabile per evitare il rischio, sempre più dirompente oggi all’interno dei reparti di 41 bis o.p., di una giurisprudenza a macchia di leopardo e cioè del fatto di avere decisioni difformi pur in situazioni identiche o analoghe, creando difficoltà nella gestione dei detenuti che appartengono allo stesso gruppo di socialità.

Con queste modalità la prova diventerà più dura, il controllo più rigido e gli elementi valutati dal magistrato più stringenti. Un percorso questo che deve essere, però, fatto in sinergia con il rafforzamento degli aspetti rieducativi della pena ex art. 27 Cost.

Sì perché il carcere fine a se stesso non basta, le pene, lo abbiamo visto, prima o poi finiscono, e quelli che erano detenuti, anche per reati di criminalità organizzata, ritorneranno alla vita normale.
Se si vuole realmente fare prevenzione bisogna investire soprattutto sul piano della inclusione sociale e culturale e questo vale per tutti i detenuti, compreso chi si trova al 41 bis e in alta sicurezza.

Lo scopo del carcere, “quello vero”, è riabilitare la persona e non di certo buttare via la chiave. Questo purtroppo oggi non sempre avviene, a causa di diversi fattori: ambienti insalubri e sovraffollamento, strutture detentive degradanti e vetuste, poche attività riabilitative a causa di carenza di personale, poche risorse, mancanza di progetti individuali e mirati sul singolo detenuto, solo per citarne alcune.

L’esperienza detentiva deve, pertanto, essere orientata a un certo obiettivo per verificare “in concreto” se il detenuto abbia “ripensato” alla sua esperienza delinquenziale, sia cambiato abbracciando una strada di legalità e si prepari alla sua scarcerazione.

Detto ciò, ovvio che qualora vengano concessi benefici penitenziari a detenuti che non hanno un adeguato percorso rieducativo e di socializzazione alle spalle, e, quindi senza la consapevolezza del male causato, i danni potrebbero essere gravissimi.

Per queste ragioni, è fondamentale che il Parlamento in questa battaglia di civiltà sia compatto a 360 gradi. Non possiamo permettere che le porte del carcere si aprano per far uscire indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo né che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista voleva raggiungere con gli attentati degli anni ’92-’94.

Tutti a parole sono bravi, soprattutto a commemorare i morti, quello che conta, però, sono i fatti.

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