Il regista danese Thomas Vinterberg non ha bisogno di essere accompagnato a scuola, pardon nelle sale italiane, dai genitori. Il suo cinema parla da sé oramai da oltre vent’anni
Il regista danese Thomas Vinterberg non ha bisogno di essere accompagnato a scuola, pardon nelle sale italiane, dai genitori. Il suo cinema parla da sé oramai da oltre vent’anni. Oltre ad un approccio stilisticamente marcato e a suo modo ossessivo, lancia narrativamente sempre un amo, un gancio, una sorta di insinuante provocazione (etica, morale, psicologica) e poi cerca di scoprirne e imbastirne un possibile effetto. Un altro giro, Oscar come miglior film internazionale 2021, vede protagonista un quartetto di incupiti insegnanti di scuola attorno ai quaranta. In aula la loro presenza è tollerata nell’indifferenza degli alunni che li credono pure dei discreti incapaci. Poi durante una cena, dove assaggiano pregiati vini e liquori, Martin (Mads Mikkelsen), Tommy (Thomas Bo Larsen), Peter (Lars Ranthe) e Nikolaj (Magnus Millang) si inebriano della (presunta) teoria di uno psicologo norvegese: nasciamo con un deficit di alcool nelle vene e nel corpo dello 0,05%, bere un paio di bicchieri per colmarlo è tutta salute, anzi incrementa addirittura il successo delle proprie azioni nella vita di tutti i giorni. Perché non provare, dicono i quattro, a verificare la teoria nella pratica? L’importante, dice Martin, è farlo alla Hemingway: non si beve dopo le otto di sera e nel weekend.
Detto, fatto. Ed è qui la parte più riuscita, stimolante, efficace di Un altro giro. Il periodo felice, giocoso, sbarazzino di “intossicazione” leggera. Un tentativo di alterazione volontaria, sempre una minuzia di tacchetta alcolica più in alto, dello stato di coscienza altrimenti insopportabile. I risultati iniziali dell’alcool sulla didattica sono infatti eccezionali. Nikolaj che insegna musica riesce a far cantare con entusiasmo anche i più stonati. Tommy fa andare in gol, sicuro dei suoi mezzi, anche il bimbetto più sfigato tra i pulcini. Martin che insegna storia riacquista la fiducia dei ragazzi facendoli perfino divertire con il quiz sul chi ti fideresti fra tre personaggi storici: due che si ubriacano e sono pieni di vizi, l’altro invece pulito e integerrimo. I ragazzi ebbri di entusiasmo scelgono, senza vedere facce e nomi, il terzo che poi è Hitler, mentre scartano Churchill e Roosevelt. Solo che qui iniziano alcuni limiti sostanziali del film, tra cui un alone da melodramma ammonitore che si impadronisce di una larga parte del racconto, quando l’esperimento sfugge di mano ai quattro e le conseguenze del superamento dei limiti di alcool nel sangue diventa ubriacatura dura tra beveroni ingurgitati tutti d’un sorso e birracce di quart’ordine. La questione infatti si fa patologica e iniziano i guai grossi in famiglia. Martin litiga furiosamente con la moglie. Nikolaj finisce per farsela addosso sul lettone matrimoniale tra le urla dei familiari. È proprio quando la dimensione del riscatto professionale dei protagonisti si esaurisce come spinta e senso del racconto che Vinterberg – e il fido sceneggiatore Tobias Lindholm – sembrano come finire momentaneamente in apnea di idee e sviluppi concettuali. I quattro caracollano tra le corsie dei supermercati, sbattono contro i muri dell’aula insegnanti, cadono a terra senza la forza per rialzarsi e capire dove si trovano, senza vagheggiare mai una funzione antisistema alla Idioti di Lars von Trier (Vinterberg è nato sotto il segno del Dogma 95 – Festen) o nemmeno assumendo su di sé una funzione simbolica modello Grande abbuffata di Ferreri.
In aiuto al regista danese accorre la sua forza espressiva oramai consolidata, la sua capacità con la macchina da presa di ballonzolare di fronte e attorno ai personaggi (ma un po’ distante), di fianco e di tre quarti (piuttosto vicino e con sbalzi di controluce). Maturità compositiva che, in attesa di quel finale tanto trascinante e salvifico (almeno pare) quanto strombazzato nei trailer come nella notte degli Oscar, rende Un altro giro un film addirittura raffinato, da produzione finanche patinata. Da non perdere la performance clamorosa di Mikkelsen: in alcuni momenti fisicamente assente e pesantemente dondolante in quella sospensione alcolica da alcolisti consumati che non permette di muoversi, spostarsi, prendere le misure e ponderare parole o gesti come una persona “normale”. P.S. lo psicologo norvegese Skarderud ha smentito ufficialmente le parole che gli sono state affibbiate nello script: “Ho solo detto che con un paio di bicchieri la vita può andare meglio e che forse siamo nati con un deficit. L’alcol è in larga misura un lubrificante sociale. La difficoltà è trovare il giusto equilibrio e non abusarne”.