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Cile, a quasi cinquant’anni dal golpe, finalmente riemerge l’alternativa popolare

“Yo pisaré las calles nuevamente de lo que fue Santiago ensangrentada en una hermosa plaza liberadame detendré a llorar por los ausentes.” Così comincia una bella canzone del cantautore cubano Pablo Milanés, che fa riferimento al brutale e sanguinoso colpo di Stato di Pinochet che rovesciò, l’11 settembre 1973, il legittimo governo di Salvador Allende, assassinando a freddo migliaia di persone, arrestandone e torturandone decine di migliaia e mandandone per anni in esilio centinaia di migliaia. La loro colpa? Aver sperato nel progetto di riscatto nazionale e sociale di Unidad Popular, che era entrato in insanabile contrasto colle mire e i progetti delle multinazionali interessate allo sfruttamento selvaggio della popolazione e delle sue risorse, a cominciare dal rame, all’epoca di importanza fondamentale.

Nella bella canzone in questione, Pablo Milanés auspica la possibilità di tornare a percorrere liberamente le strade di Santiago insanguinate dai golpisti assassini. Quasi cinquant’anni sono passati da quei tragici momenti e finalmente l’auspicio sembra realizzabile. Pinochet aveva formalmente lasciato il potere fin dal referendum del 1988 che perse, ed era in seguito deceduto, ma la sua ombra continuava a gravare sul Paese da vari punti di vista.

Dal punto di vista politico, colla presenza di una destra che più o meno apertamente si ispira al pinochettismo, formata da due raggruppamenti, Renovacion nacional e Unión demócrata independiente, la quale, grazie anche a meccanismi elettorali artatamente iniqui e deformanti, ha potuto sin qui esercitare un condizionamento decisivo sugli orientamenti delle istituzioni rappresentative.

Dal punto di vista sociale ed economico, laddove l’annientamento – col terrorismo di Stato aperto e una serie innumerevole di crimini contro l’umanità compiuti negli anni successivi al colpo di Stato – delle organizzazioni sindacali e politiche del proletariato ha lasciato campo libero ai cosiddetti “Chicago Boys”, che hanno riorganizzato il Paese secondo i dettami del peggiore e più sfrenato neoliberismo.

Dal punto di vista del modus operandi degli apparati repressivi, dove la sostanziale impunità di cui hanno potuto godere i massacratori e carnefici degli anni Settanta ha consentito il permanere di una mentalità, presente nel corpo dei Carabineros e nelle Forze armate, secondo la quale il popolo è il nemico che va contrastato con ogni mezzo necessario, anche se vengono violati i più elementari standard universalmente vigenti in materia di diritti umani.

Questi tratti inquietanti hanno continuato a caratterizzare la vita politica e sociale e cilena anche dopo l’uscita di scena di Pinochet nel 1988, grazie anche alla complicità sostanziale di forze politiche di “centrosinistra”, facenti capo alla cosiddetta Concertación, che hanno in buona misura accettato un modus vivendi coi residuati umani, ideologici e materiali del golpismo. È per questo motivo, fra l’altro, che in Cile, a differenza che in Argentina, i crimini della dittatura militare non sono stati oggetto di esecrazione generalizzata e adeguata punizione sul piano giudiziario. Mentre i genocidi argentini hanno passato tra le sbarre gli ultimi anni delle loro esistenze malvissute, Pinochet ha fatto un po’ di galera solo grazie al giudice spagnolo Garzón, che lo fece arrestare mentre si trovava a Londra.

Le cose hanno cominciato a cambiare solo colla rivolta iniziata nell’ottobre 2019, che ha visto il popolo cileno, e soprattutto le giovani generazioni, scendere in piazza contro il regime del presidente Sebastián Piñera, una sorta di Berlusconi in salsa cilena, visbilmente più interessato al buon andamento delle imprese proprie ed altrui che al benessere effettivo di un popolo sempre più duramente colpito dalla povertà e dall’assenza di diritti e servizi sociali elementari.

La rivolta è stata pagata a caro prezzo. La repressione è stata sempre brutale e indiscriminata e continua tuttora. Un dato particolarmente impressionante è quello degli oltre trecento giovani intenzionalmente accecati ma vi sono state varie uccisioni, torture, stupri, violenze ed imprigionamenti senza motivo. Tutti comportamenti che fanno supporre l’esistenza di quell'”attacco generalizzato e sistematico contro la popolazione civile” che l’art. 5 dello Statuto della Corte penale internazionale prevede come elemento costitutivo della fattispecie di crimine contro l’umanità, spingendo varie organizzazioni a presentare una denuncia contro Piñera e i suoi accoliti alla Corte penale internazionale.

Le elezioni per l’Assemblea costitutente di domenica 16 maggio 2021 hanno dimostrato che la rivolta non è stato un fatto episodico, ma la dimostrazione di un cambiamento permanente e profondo dello stato d’animo del popolo cileno. Esse infatti hanno relegato le destre a percentuali molto ridotte ed hanno inflitto anche una sonora lezione alle forze del centrosinistra moderato. Emblematica l’elezione, per la prima volta nella storia, di Irací Hassler, giovane donna comunista a sindaca di Santiago.

Ci sono quindi oggi le premesse per un definitivo superamento del neoliberismo e del pinochettismo comunque mascherato. La vittoria del popolo cileno si inserisce peraltro in un quadro segnato a livello continentale dalla ripresa delle forze popolari che fanno presagire una nuova ondata della democrazia e dell’integrazione latinoamericana, colla vittoria di forze alternative agli attuali regimi di Bolsonaro in Brasile e Duque (alias Uribe) in Colombia.