La tregua per Gaza, se regge, è solo un primo passo. Sbaglia il governo israeliano se crede di convincere l’opinione pubblica che tutta la vicenda si riduca a un duello con Hamas. Va rilanciato il negoziato tra israeliani e palestinesi con un obiettivo chiaro: dare vita ad uno stato palestinese che viva in pace accanto allo stato d’Israele. E’ questa la bussola della Santa Sede.

Perché il lavoro della diplomazia internazionale comincia appena adesso. Papa Francesco ha incontrato venerdì un gruppo di ambasciatori venuti a presentare le credenziali e ha espresso l’auspicio che “israeliani e palestinesi possano trovare la strada del dialogo e del perdono”. Francesco invita le parti ad essere “pazienti costruttori di pace e di giustizia”. Con una meta: arrivare “passo dopo passo… ad una convivenza tra fratelli”.

In altre parole va ripreso il cammino della road map, che la destra israeliana non ha mai voluto percorrere. Fa parte dello stile di governo di papa Bergoglio esprimersi nelle linee generali, lasciando agli episcopati locali di entrare nei dettagli. E infatti il patriarca latino di Gerusalemme – il francescano Pierbattista Pizzaballe – avverte che la “guerra di questi giorni a Gaza è come le altre guerre del passato, e altre ancora ve ne saranno in futuro se non si affrontano i problemi alla radice”.

Parlando con l’agenzia religiosa Asia News, padre Pizzaballa ha sottolineato che resta aperta la “questione del popolo palestinese”. Un dialogo rispettoso fra le parti, prosegue, finora non c’è stato. “I governi che si sono alternati in questi ultimi anni alla guida dello stato di Israele – riferisce Asia News riportando il colloquio con il patriarca – non hanno fornito un contributo nell’ottica della pace, del dialogo e della distensione fra le parti”.

La vera novità, fa notare Pizzaballa, consiste nelle violente tensioni esplose all’interno di Israele tra arabi ed ebrei, cittadini dello stesso stato. “C’è un profondo disagio” cresciuto nel tempo, problemi di identità dello stato ebraico intrecciati alla questione di Gerusalemme. Ed è inutile nascondersi, spiega il patriarca, che i discorsi improntati alla violenza di alcuni partiti di destra israeliani sono stati la “scintilla che ha infine innescato la miccia” del conflitto interno.

L’Osservatore Romano, definendo la tregua uno spiraglio di pace, ricorda la situazione tragica di Gaza dove si registra la “distruzione di edifici delle principali infrastrutture: ospedali, istituzioni, uffici e servizi essenziali come la centrale elettrica”. Il bilancio del conflitto è eloquente. Hamas ha ucciso dodici israeliani, di cui 2 bambini. L’esercito israeliano ha ucciso 227 persone, di cui 65 minori. Il giornale vaticano ribadisce che rimangono sul tavolo gli interrogativi di fondo: “Quale tipo di futuro attende israeliani e palestinesi e come la soluzione dei due Stati per due popoli, sostenuta dalle Nazioni Unite, sarà raggiunta”.

Gira e rigira il nodo rimane la non volontà della destra israeliana, sostenuta totalmente negli anni passati dalla presidenza Trump, di sedersi al tavolo per fare nascere lo stato palestinese. Nei giorni scorsi su Repubblica si sono confrontati gli ambasciatori di Iran e Israele. Due interventi istruttivi, se sfrondati dalle reciproche accuse propagandistiche. Il diplomatico iraniano propone: “L’unico percorso pacifico per la Palestina sarebbe quello di tenere un referendum fra tutti i cittadini residenti in Palestina per permettere loro di scegliere il futuro della loro terra”. Salta agli occhi la (voluta) indeterminatezza del termine “Palestina”. La Cisgiordania palestinese? O la Palestina del mandato britannico prima della nascita dello stato di Israele?

Indicativo l’articolo dell’ambasciatore israeliano. Mentre accusa Hamas di essere terroristi e l’Iran di essere sovversivo e antisemita e bugiardo sul trattato nucleare e mentre autogratifica Israele di collaborare con l’Italia alla ricerca di farmaci anti-Covid “a beneficio del mondo intero”, non nomina mai – letteralmente mai – i palestinesi in ottanta righe di testo. I palestinesi non esistono, il diritto palestinese ad uno stato non esiste, anzi non esiste nemmeno il problema.
E’ esattamente questo a minare la credibilità del governo Netanyahu e dello schieramento di destra israeliano.

L’organizzazione Human Rights Watch nel suo ultimo rapporto denuncia la politica governativa israeliana nei territori palestinesi come una strategia di tipo apartheid. Consistente nel dominio di una etnia sull’altra e in una “sistematica oppressione” da parte di una etnia sull’altra.

L’opinione pubblica non è cieca. In Italia è nettamente maggioritaria tra gli intervistati da SWG la percezione che entrambe le parti in causa abbiano originato il conflitto di Gaza: 41 per cento. Il 18% dà la colpa agli israeliani e il 9 % ai palestinesi. Negli Stati Uniti il Pew Research Center sta registrando un cambiamento di atteggiamento persino nell’opinione pubblica ebraica. Già un anno fa il 37 % dei giovani ebrei americani sotto i trent’anni considerava la politica di Washington “troppo in favore di Israele”. Che l’opzione “due popoli/due stati” sia tramontata è una idea di parte travestita sussiegosamente da realpolitik. Non a caso su mandato del presidente Biden, che fiuta il clima politico internazionale, il rappresentante americano all’Onu è tornato a parlare della “soluzione a due stati”. Al Consiglio di sicurezza il diplomatico Richard Mills ha citato espressamente tra i fenomeni negativi (da parte israeliana) “annessione di territorio, attività di insediamento e demolizioni”.

Quest’oggi si terrà in tutta la Terrasanta una veglia di preghiera per la pace, cui ha aderito papa Francesco. “Non è più tempo di dichiarazioni generiche – afferma il patriarca cattolico Pizzaballa – servono pace e giustizia. Aggiungo anche un’altra parola fondamentale, il perdono”.

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