Nei giorni scorsi i media si sono molto occupati della storia di Khaby Lame, l’italiano più seguito sui social, così è stato raccontato. Con una bizzarra peculiarità: in realtà non è italiano.
Si sono accorti di lui perché 65 milioni di follower non passano inosservati e l’hanno ritratto come un emblema dell’italico genio che a 21 anni, con una lettera di licenziamento in tasca, ha un’idea brillante e ottiene più follower di Mark Zuckerberg.
Solo che Khaby ha lasciato il Senegal con i suoi genitori ed è arrivato in Italia quando aveva un anno. Oggi lo immagino parlare con cadenza piemontese.
Per tutto il mondo è italiano ma non per lo Stato di quello che lui ritiene il suo Paese. E come lui migliaia di ragazze e ragazzi senza cittadinanza. Bambini e bambine, che vivono in Italia che si percepiscono come italiani e tali sono percepiti dai loro coetanei ma che di fatto non sono giuridicamente cittadini italiani.
È esattamente su temi come questi, politicamente irrisolti, e in generale nell’ambito più ampio dei diritti civili e umani, che in questi anni la sinistra e più in generale il campo progressista ha fallito.
Ha fallito perché i diritti umani e civili o sono veramente di tutti o non sono di nessuno.
Davvero abbiamo bisogno del caso eccezionale per sollevare di nuovo la mai compiuta battaglia dello Ius Soli e Ius Culturae? È parecchio deprimente oltre che anacronistico.
Ancora una volta, nel momento in cui noi accettiamo che i diritti di una persona valgano meno di un’altra per il colore della sua pelle, per il passaporto che ha in tasca, per il Dio in cui crede, allora accettiamo che questa discriminazione toccherà anche noi cittadini europei, fermamente convinti di esserne esenti e intoccabili.
Khaby è cittadino italiano ed è ingiusto che non lo sia anche giuridicamente.
Viviamo in un mondo in cui tutto si muove molto rapidamente. Tutto tranne le persone, il cui movimento è sempre ostacolato da muri e frontiere. Un mondo così è un mondo destinato a crollare. Dobbiamo ripensare le nostre politiche e dobbiamo farlo in modo che guardino al fenomeno migratorio e alla mobilità umana come qualcosa di strutturale del nostro tempo.
Nelle nuove generazioni nel nostro Paese non devono e non possono esistere differenze legate al colore della pelle, all’orientamento sessuale, alla religione o provenienza geografica. Non sia lo Stato a creare diseguali tra gli uguali, negando la cittadinanza a chi è nato in Italia solo perché ha genitori nati in un altro Paese. Come possiamo pensare di costruire una società inclusiva se permettiamo che un ragazzo attenda la cittadinanza per vent’anni?
Non abbiamo più scuse, riformare le regole per l’ottenimento della cittadinanza è sì un atto di giustizia ma soprattutto di buonsenso.