Non è la prima volta che la Cassazione che si esprime sul tema, anche se 5 anni il ricorso era diverso e riguardava l’attribuzione di omosessuale a un etero. Ma per quanto riguarda la parola “frocio” la questione è ben diversa. Per la “stragrande maggioranza degli italiani” riferirsi a qualcuno definendolo “frocio“, equivale a una diffamazione e non si può sostenere che la “coscienza sociale” è cambiata e accetta di buon grado questo epiteto come se non avesse alcun “carattere ingiurioso”. Per questo gli ermellini hanno confermato la condanna per diffamazione – la cui entità non è nota – nei confronti di un imputato transessuale processato dalla Corte di appello di Milano il 9 gennaio 2020.
Su Facebook, l’imputato che vive ed esercita la “propria attività” nel capoluogo lombardo, aveva sostenuto che un politico locale era un omosessuale e di aver intrattenuto con lui “un rapporto sessuale”, sempre su Fb lo aveva chiamato “frocio” e “schifoso”. Il destinatario di questi ‘contenuti, si era risentito ed era passato a vie legali. Senza successo, dopo le condanne di primo e secondo grado, l’imputato ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo che le parole usate “avrebbero ormai perso, per l’evoluzione della coscienza sociale, il carattere dispregiativo”. Ma i giudici – sentenza 19350 della Quinta sezione penale – non sono stati dello stesso parere.
“Le suddette espressioni – afferma la Suprema Corte – costituiscono invece, oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate, in ogni dove, dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono, per recare offesa alla persona, proprio ai termini utilizzati dall’imputato“. Così il ricorso della difesa dell’imputato è stato dichiarato inammissibile con condanna anche a versare tremila euro alla Cassa delle ammende.