A distanza di un anno dalla chiusura dell’area a caldo della Ferriera di Trieste è tempo della riconversione dello stabilimento siderurgico. L’accordo di programma siglato a giugno 2020 ha previsto il finanziamento di oltre 300 milioni tra risorse private e fondi pubblici per la dismissione dei vecchi impianti, la messa in sicurezza dei terreni, il raddoppio del laminatoio, la realizzazione di un terminal portuale e la riqualificazione della centrale elettrica che finora aveva lavorato con i gas di scarto della produzione.
Al progetto iniziale da pochi giorni si è aggiunta una nuova proposta, presentata dal gruppo Arvedi al tavolo del Ministero dello sviluppo economico, che prevede di realizzare un nuovo capannone all’interno del quale installare una linea di zincatura per produrre un rivestimento di zinco e leghe speciali”, con “l’installazione di due elettrolizzatori, alimentati a energia solare, per la produzione di idrogeno destinato ai forni di riscaldo in parziale sostituzione del gas naturale”. Si tratta però, fa notare al fattoquotidiano.it il gruppo Arvedi, di una produzione “economicamente non sostenibile“, in quanto ha un costo 4-5 volte superiore rispetto all’utilizzo del gas naturale, e che ha quindi al momento il carattere della “sperimentazione“. Il piano di riconversione di Arvedi ha previsto, in generale, la parziale sostituzione della ghisa prodotta a Trieste con ferro e rottame postconsumo per “ridurre lo spreco di risorse, con minor produzione di CO2 e l’allungamento del fine vita dei prodotti generati”. Vista in questa prospettiva, la produzione di idrogeno “green” nel sito di Trieste è “un ulteriore passo verso un pieno utilizzo di energie rinnovabili nel processo produttivo”,
La proposta piace all’assessore regionale all’Ambiente Fabio Scoccimarro (fdi), per il quale “la produzione di idrogeno tramite pannelli solari si sposa con la nostra idea di sviluppo sostenibile, alla base della richiesta di due anni fa con cui abbiamo avviato la riconversione dell’area a caldo”. Più scettico invece il fronte ambientalista: “L’idrogeno viene usato come riducente, a partire da minerali di ferro, per produrre il preridotto – spiega al fattoquotidiano.it Lino Santoro di Legambiente –. “Se nel processo si utilizzano energie rinnovabili come quella solare è un conto, ma se si usa il gas naturale, che contiene metano, si produce CO2. Il fatto che si tratti di una sperimentazione lascia intendere che la gran parte della produzione comporterà l’emissione di CO2. Tutto per fare bella figura, un’operazione di greenwashing”.
Per quanto riguarda invece l’inquinamento prodotto dall’area a caldo, a distanza di un anno dalla sua chiusura i dati registrati dall’Arpa mostrano giocoforza un netto miglioramento: “Abbiamo registrato una drastica riduzione nella concentrazione media di PM10, superiore al 60% nel periodo estivo”, oltre a una “riduzione di benzene e benzo[a]pirene, che hanno raggiunto valori analoghi a quelli delle stazioni di fondo urbano di Trieste, abbondantemente al di sotto del limite di legge“. Una situazione inedita per Servola, che fa tirare un sospiro di sollievo agli abitanti del rione: “La qualità della vita è molto migliorata – osserva al fattoquotidiano.it Alda Sancin, presidente dell’associazione NoSmog – , ci sono ancora disagi dovuti alle demolizioni, che provocano il sollevamento di polveri, ma si tratta di un problema temporaneo”. Un discorso diverso vale per l’inquinamento dei terreni e delle acque: “Una bonifica seria richiederebbe di portare via migliaia di metri cubi di terra, si tratterebbe di un lavoro enorme”, continua Sancin. L‘Accordo di Programma siglato nel 2014 prevede di sigillare e isolare il corpo suolo, mentre le acque verranno barrierate. “Quella dello stabilimento resterà un’area inquinata – osserva – ma almeno il problema delle polveri sottili dovrebbe essere superato”. Si attende la fine del 2022, ovvero il termine dei lavori allo stabilimento, per dare una valutazione definitiva: “Tutto dipenderà dalla serietà di chi dovrà dare limiti al privato e di chi controllerà, Regione e Arpa”, conclude Sancin.
Sul fronte occupazionale i timori sembrano essere superati: l’ad del gruppo Arvedi ha assicurato, in un incontro con i sindacati nel mese di febbraio, l’intenzione di chiudere la cassa integrazione straordinaria dei dipendenti nei 24 mesi previsti, con l’obiettivo di reinserire gli operai nel ciclo produttivo.