Scontro impari, come la guerra di Gaza. Da una parte gli specialisti del Medio Oriente, assai critici verso il governo israeliano, dall’altra una folla di editorialisti e politici, assai bendisposti verso ‘l’unica democrazia della regione’ (Fassino, Cazzullo). Non è la prima volta che il sapere dei pochi si scontra con l’arronzare dei molti. La novità sta nel fatto che i pochi hanno costretto i molti sulla difensiva con sortite veementi.
Ha cominciato quella testa calda di Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano: “scandalosa la disinformazione” praticata con poche eccezioni dai media italiani, ha detto a Radio Popolare. Nel frattempo 29 studiosi del Medio Oriente, tra i quali Elisa Giunchi e il gruppo di Sesamo, in una lettera aperta hanno incalzato la Rai ad offrire quel che era mancato, “una spiegazione completa e corretta di quanto accade”. Infine Marina Calculli, università di Leiden, sulla rivista del Mulino ha denunciato “un clima di intimidazione istituzionale che tende a mettere a tacere e criminalizzare ogni critica verso Israele come antisemita. Così incastrati nella viltà da non riuscire a chiamare la violenza coloniale di Israele con il suo nome, siamo costretti a criminalizzare le sue vittime”.
Ai vigilantes di Informazionecorretta.com, il sito che si incarica di manganellare chi manca di rispetto alla destra israeliana, devono essere fischiate le orecchie perché la Calculli è finita subito nella lista dei pessimi (capitò anche a me, durante l’offensiva israeliana del 2009 scrissi reportage sgraditi e il sito lasciò intendere, in sintonia con tre suoi beniamini – i giornalisti Cremonesi, Pagliara, Rocca – che non fossi nella Striscia). Ma ormai la diga era crepata, e nei giorni successivi altri specialisti (Kamel, Tocci, Huber) hanno contraddetto la rappresentazione egemone negli editoriali: da una parte Israele, che difende il proprio diritto ad esistere, dall’altra i palestinesi, nei ruoli di ascari di potenze islamiche oppure di vittime di Hamas, mai di vittime delle politiche israeliane.
Non un accenno alle conclusioni cui è arrivata dopo anni di indagine Human Right Watch, autorevole think-tank statunitense: nei Territori occupati Israele si macchia di gravissime violazioni dei diritti umani, configurate da una consolidata legalità internazionale come crimini di Apartheid e di Persecuzione.
Ignorato dai media italiani malgrado il New York Times gli abbia dedicato una pagina, il recentissimo rapporto di HRW introduce una percezione del conflitto arabo-israeliano che in Occidente suona inedita e peserà, non soltanto perché HRW pare il battistrada dell’indagine che la Corte penale internazionale ha avviato due mesi fa. Nell’accusare le autorità israeliane di “atti disumani” (“Restrizioni ai movimenti di 4.7 milioni di palestinesi, la confisca della gran parte della loro terra… il rifiuto di permessi di costruzione; il rifiuto di diritti di residenza… la sospensione di elementari diritti civili, quali la libertà di riunirsi e di associarsi, così da deprivare i palestinesi dell’opportunità di avere una voce in una gran quantità di questioni che coinvolgono la loro vita e il loro futuro”) HRW ci spiega che un terzo del West Bank, confiscato nel corso di questi decenni, è stato per gran parte consegnato ai ‘coloni’ o a strutture militari di sostegno ai ‘coloni’. E i palestinesi sono stati convogliati o ristretti in 165 ‘isole’ non contigue tra di loro. Intenzionalmente: la volontà di impedire una continuità territoriale tra città e paesi palestinesi era espressa esplicitamente già nel ‘piano Drobles’, varato dal governo israeliano nel 1980.
Da tutto questo si ricava agevolmente che la soluzione dei due Stati è pura finzione. Per ricostruire oggi l’antica continuità e dotare i palestinesi di uno Stato, Israele dovrebbe deportare decine di migliaia di ‘coloni’, consegnarne ai palestinesi le case e le serre, affrontare una guerra civile, ristrutturare drasticamente il proprio sistema di difesa, cambiare il modello economico e sopportare danni economici giganteschi. Non accadrà mai.
Conviene immaginare altro, per esempio una lunga ma onesta transizione verso uno Stato binazionale, dove arabi ed ebrei convivano con pari dignità dentro circuiti legali in parte non coincidenti (esistono in proposito progetti elaborati in ambito accademico, e sondaggi in Israele e nel West Bank, dove il consenso a questa idea si dimostra promettente). Ovviamente gli occidentali dovrebbero mettere in campo argomenti muscolari per piegare Hamas e per costringere la destra israeliana a smantellare da subito il regime di apartheid.
L’idea che l’Europa farebbe bene a prendere di petto il governo israeliano è così estranea al dibattito italiano da indurre Daniela Ranieri a chiedersi se esista ancora in questo Paese una sinistra: tra “tanti bolliti, rovesciafrittatisti e difensori dei forti”, nota l’opinionista del Fatto, solo Di Battista e Fratoianni hanno una posizione tradizionalmente di sinistra.
A conti fatti la nicchia è più ampia, ma di poco: vanno aggiunti Landini, Provenzano, Benifei, D’Alema, l’unico politico a pronunciare la parola tabù, “apartheid”. Fine. Peraltro il conformismo omissivo che in Italia affratella politica e giornalismo colpisce anche centro e destra, dove mai si mostrano le sacche di pensiero critico apparse all’estero in partiti moderati o conservatori.
Per esempio nella destra britannica due ex ministers of State per il Medio Oriente hanno denunciato le politiche di Londra e degli europei come “menzogne” prodotte da un “vuoto morale”: da una parte si finge di credere nella soluzione dei due stati, dall’altra si lascia mano libera ad Israele con il pretesto dell’estremismo palestinese, effetto anche dell’inazione occidentale. Ricalca lo schema europeo anche Michele Serra, geniale ristrutturatore di luoghi comuni. “Il fondamentalismo” di Hamas, dice ad un condiscendente Zoro, mi impedisce di prendere posizione. Se la discriminante è il fondamentalismo, segnalo a Serra che gran parte della destra israeliana ricava dalla Bibbia il proprio diritto ad annettersi il West Bank. E’ stato dio, pare, ad avergli dato i Territori, molto tempo fa.
Evitandosi i rischi del pensiero critico e fuggendo la complessità, la politica e il giornalismo perdono senso, rilevanza, autorevolezza, lettori ed elettori, e soprattutto la capacità di decifrare gli eventi. Decadono ad alterco da talk-show, tifo di followers, trionfo del confirmation bias, intesa come attitudine a credere solo a quanto conferma i pregiudizi della propria tribù. Vengono meno alla funzione che dovrebbero svolgere in una democrazia sana. Ma niente paura, poiché giornali e tg mai hanno parlato di una simile deriva, deve trattarsi sicuramente di fake-news inventata dai social.