Nel corso degli interrogatori della notte è arrivata l’ammissione: i freni d’emergenza dell’impianto erano stati disattivati – inserendo i “forchettoni” che ne bloccano le ganasce – per evitare i continui blocchi che lo avrebbero reso inservibile. Una “scelta deliberata e consapevole“, per “evitare disservizi della funivia”, che, da quando aveva ripreso servizio lo scorso 26 aprile, segnalava continue anomalie che portavano all’attivazione del freno. Per questo, a tre giorni dalla tragedia del Mottarone – il distacco della cabina in cui sono morte 14 persone, tra cui due bambini – la procura di Verbania ha disposto all’alba il fermo nei confronti dei tre soggetti finora indagati. Si tratta di Luigi Nerini, 56 anni, amministratore unico della società che gestisce l’impianto (Ferrovie Mottarone srl), del direttore dell’esercizio Enrico Perocchio (che ricopre lo stesso incarico per la funivia Nostra Signora di Montallegro di Rapallo) e del capo operativo del servizio Gabriele Tadini.

A confessare che il “forchettone” era inserito, apprende ilfattoquotidiano.it da fonti investigative, è stato quest’ultimo: dalla sua deposizione gli inquirenti hanno dedotto la responsabilità degli altri. Tutti e tre sono stati condotti nel carcere di Verbania. Oltre a quella di omicidio colposo, l’accusa è di rimozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (articolo 437 del codice penale), aggravata dal verificarsi del disastro, reato che da solo prevede una pena da tre a dieci anni di carcere. Contestate anche le lesioni colpose gravissime nei confronti del piccolo Eitan Biran, il bambino di 5 anni unico sopravvissuto all’incidente e ricoverato all’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino. Nelle prossime ore i magistrati chiederanno l’applicazione di una misura cautelare.

Nei confronti dei tre dirigenti – ha spiegato nella notte la procuratrice Olimpia Bossi, che coordina le indagini insieme al sostituto Laura Carrera – è stato raccolto “un quadro fortemente indiziario”. L’analisi dei reperti fotografici ha infatti permesso di accertare che “la cabina precipitata presentava il sistema di emergenza dei freni manomesso”: uno dei due forchettoni”, i ferri rossi che impediscono l’azione dei freni d’emergenza che dovrebbero bloccare il cavo portante in caso di rottura del cavo trainante – non era stato rimosso. L’altro, invece, è stato ritrovato sul luogo dell’incidente nel corso di un sopralluogo tenuto in mattinata: confermata la convinzione del tenente colonnello Alberto Cicognani – comandante provinciale dei Carabinieri di Verbania – che fosse a propria volta inserito, perché “anche uno solo dei due freni di emergenza, se libero di attivarsi, sarebbe bastato”.

Le persone sottoposte a fermo sono quelle che avevano, “dal punto di vista giuridico ed economico, la possibilità di intervenire”. Coloro, insomma, che prendevano le decisioni, inclusa quella rivelatasi fatale. Alla decisione si è arrivati in seguito agli interrogatori, un confronto durato oltre 12 ore con testimoni, dipendenti e tecnici dell’impianto convocati nella caserma dell’Arma, a Stresa, a partire dal pomeriggio di martedì. In un primo momento tutti avevano la qualifica di persone informate sui fatti, ma già ieri sera, con l’arrivo dei primi avvocati, è apparso chiaro che la posizione di alcuni di loro era cambiata. Nerini si è presentato poco dopo mezzanotte, raggiunto in seguito dal suo difensore, l’avvocato Pasquale Pantano. Il direttore d’esercizio Perocchio, invece – riferisce il suo legale – “non è ancora stato sentito dall’autorità giudiziaria né ha rilasciato alcuna dichiarazione”.

Entrata in funzione da circa un mese, dopo lo stop dovuto alla pandemia, la funivia del Mottarone viaggiava senza freno d’emergenza “da più giorni” e “aveva fatto diversi viaggi”, ha precisato ancora Bossi all’uscita dalla caserma. Erano stati “richiesti ed effettuati” interventi per rimediare ai disservizi, l’ultimo il 3 maggio, ma “non erano stati risolutivi, per ragioni che certamente andranno approfondite. Si è quindi pensato di aggirare, eludere o comunque rimediare, sia pure magari in vista di un intervento più radicale”. E “nella convinzione che mai si sarebbe potuto verificare una rottura del cavo, si è corso il rischio che ha purtroppo poi determinato l’esito mortale“, sottolinea il magistrato, che parla di “uno sviluppo, molto grave e inquietante, consequenziale agli accertamenti svolti. Non è stata la scelta di un singolo – ha chiarito – ma una decisione condivisa e non limitata a quel giorno, volta a superare problemi che avrebbero dovuto essere risolti con interventi più decisivi e radicali invece che con telefonate volanti. Credo che l’impianto, gestito dalla società, abbia plurimi dipendenti. Verificheremo se anche il personale sapeva, il che non significa che fosse una loro decisione”.

“È la prima volta che mi capita una situazione come questa in tanti anni di servizio – ha ammesso il tenente colonnello Cicognani -, nessuno poteva immaginarlo. Non è stato facile, ma abbiamo cercato di ricostruire nel miglior modo possibile, nel modo più scrupoloso tutto quello che è accaduto e ciò che ha portato alla tragica fine delle vittime. Ci potrebbero essere degli sviluppi. È prematuro dirlo, in questo momento non possiamo, ma era importante dare un segnale velocemente, con una attività scrupolosa e corretta, nel rispetto di tutti, soprattutto delle vittime”. Le indagini, infatti, non sono finite. E non solo perché, con l’intervento dei tecnici, sarà necessario confermare quanto emerso dai primi accertamenti. La procura di Verbania intende infatti “valutare eventuali posizioni di altre persone“: il numero degli indagati è destinato a crescere a breve. “Si è tutto accelerato nel corso del pomeriggio e di questa notte – diceva ancora la procuratrice lasciando la caserma – Nelle prossime ore cercheremo di verificare, con riscontri di carattere più specifico, quello che ci è stato riferito”, conclude.

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