Lavoro & Precari

Obbligo vaccinale: come si agirà nei settori non sanitari? Ecco cosa prevede il decreto

di Fabio Savoldelli*

Con il d.l. 44/2021, dopo settimane di dibattito, il legislatore ha infine accontentato coloro che richiedevano a gran voce l’introduzione dell’obbligo vaccinale anti Covid-19 in ambito lavorativo. La disposizione in commento, contenuta nell’articolo 4 del decreto, è espressamente destinata alle strutture sanitarie, socio sanitarie e socio assistenziali. Si stabilisce inoltre che l’inosservanza di tale obbligo, quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali.

Dal tenore di tali disposizioni, esplicitamente dedicate alle professioni sanitarie e affini, sembra quindi discendere che il legislatore abbia definitivamente inteso escludere la possibilità di ricorrere alla sospensione del rapporto di lavoro per ogni altra categoria di impiego. Relativamente all’attuale fase vaccinale, allora, quale situazione si profila per i datori di lavoro del comparto non sanitario dal punto di vista della normativa antinfortunistica?

Prima di rispondere a questa domanda, è necessario segnalare che il 6 aprile scorso è stato sottoscritto dal Governo e dalle Parti Sociali il protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all’attivazione di punti straordinari di vaccinazione, che per l’appunto darà il via al piano di somministrazione vaccinale nei luoghi di lavoro.

Sebbene il Protocollo stabilisca il principio dell’adesione volontaria, in base al quale l’impresa può scegliere se adottare o meno piani aziendali finalizzati alla vaccinazione, va al riguardo osservato quanto stabilito dalla normativa antinfortunistica. È noto in particolare come ogni datore di lavoro è comunque tenuto a valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa. Si tratta di rischi che possono profilarsi non necessariamente a causa dell’attività lavorativa, bensì “durante” l’attività lavorativa.

Lo dice espressamente l’art. 28 co. 2 lett. a) d.lgs. 81/08 e lo conferma la direttiva Ue 739/2020 (già recepita nel nostro paese), la quale classifica la Sars-Cov-2 come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3, ed estende al Covid-19 le misure di prevenzione previste nella Direttiva 2000/54/CE dedicata alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti biologici durante il lavoro, adottate in Italia nel titolo X del d.lgs. 81/08. Prime fra tutte, per quanto ci riguarda, la sorveglianza sanitaria e le vaccinazioni.

In particolare, l’art. 279 d.lgs. 81/08 prescrive in capo al datore di lavoro la necessità di mettere a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, fino a disporre il collocamento del lavoratore ad altra mansione, laddove il Medico Competente valuti un’inidoneità alla mansione specifica. Pertanto, alla luce di quanto stabilito dal citato articolo 279, anche per il datore di lavoro del settore non sanitario permane la necessità di mettere a disposizione i vaccini anti Covid-19 per i propri dipendenti.

Ciò, tuttavia, con alcune complicazioni in più rispetto al settore sanitario e ospedaliero, relative al caso in cui il lavoratore si rifiuti di aderire alla campagna vaccinale. Ci si riferisce in particolare a due fondamentali aspetti. Anzitutto, come anticipato, il d.l. 44/2021 non sembra consentire al datore di lavoro del comparto non sanitario, nell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altra mansione, di disporre la sospensione temporanea del rapporto di lavoro (come invece consentito nel settore sanitario). In secondo luogo, relativamente alle valutazioni del Medico Competente, appare difficile sostenere che un lavoratore idoneo alla mansione specifica in assenza di vaccini divenga inidoneo alla stessa mansione per il solo fatto che i vaccini siano ora disponibili.

Ne conseguirebbe per il datore di lavoro una sorta di impasse funzionale: da un lato impossibilitato a vaccinare il lavoratore, dall’altro, nel caso in cui questi non intenda sottoporsi al trattamento sanitario, impossibilitato ad allontanarlo dalla fonte di pericolo. Ciò, per ragioni a lui non imputabili. La scelta del lavoratore di non sottoporsi al trattamento vaccinale, pertanto, pur costituendo l’esercizio di un diritto riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione, assumerebbe un ruolo rilevante nella genesi di un eventuale contagio da Covid-19 sul luogo di lavoro, potendo infatti integrare la violazione dell’art. 20 d.lgs. 81/08, a mente del quale ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza, oltre a dover collaborare con il datore di lavoro all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute dei lavoratori.

Dal punto di vista delle responsabilità penali connesse all’eventuale contagio del lavoratore, ne discenderebbero importanti conseguenze. Infatti, una volta ritenuta necessaria la vaccinazione, quale misura di prevenzione “massima tecnologicamente possibile” individuata e disposta dal datore di lavoro all’esito della valutazione dei rischi, la scelta del lavoratore di non sottoporsi al trattamento sanitario potrebbe costituire, in caso di contagio sul luogo di lavoro, comportamento interruttivo del nesso di condizionamento, in quanto eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante della sicurezza è chiamato a governare (cfr. Cass. S.U., 24 aprile 2014, n. 38343).

In altre parole, ferma restando la necessità di valutare le peculiarità dei casi concreti, la mancata riduzione del rischio specifico da contagio entro i limiti consentiti dal progresso tecnico, come imposto tra l’altro dall’art. 15 co. 1 lett. c) d.lgs. 81/08, non sarebbe riconducibile (o non solo) a una carenza del sistema di prevenzione, bensì a una concorrente determinazione del lavoratore. Ciò, peraltro, con inevitabili ricadute anche sul piano risarcitorio, in quanto la scelta del lavoratore di rifiutare il trattamento vaccinale potrà comunque costituire oggetto di prova in ordine all’eventuale sussistenza di un concorso di colpa della persona offesa ai fini della quantificazione del danno (cfr. Cass. pen. Sez. IV, 16/05/2017, n. 42288).

L’auspicio, in conclusione, è che le diverse sensibilità e convinzioni personali inerenti al tema in esame, pur tutelate dalla Costituzione, non si impongano rispetto all’urgenza di soddisfare un bisogno di carattere primariamente pubblico: il superamento della crisi sanitaria. Mai come in questi mesi, infatti, è apparso chiaro il rapporto di naturale circolarità tra la salute individuale e quella collettiva, costantemente insidiato, come purtroppo noto, da scellerate politiche pubbliche finalizzate a reciderlo.

*Avvocato penalista, vivo ed esercito la professione a Milano. Nel corso dell’esperienza professionale ho perfezionato competenze nell’ambito del diritto penale del lavoro e nel diritto delle nuove tecnologie e della privacy (avvocatofabiosavoldelli.com – studiolexa.it)