Ammonta a 233 milioni di euro, un terzo rispetto ai 700 milioni attesi, il gettito incassato dallo Stato grazie alla prima applicazione della “web tax all’italiana”, l’imposta sui servizi digitali prevista dalla legge di Bilancio per il 2019 del governo Gentiloni e da allora più volte rinviata. In marzo il Tesoro aveva spostato al 17 maggio il termine per versare il dovuto e così è stato. I nomi dei gruppi passati alla cassa non sono noti ma il ministro dell’Economia Daniele Franco, durante il question time alla Camera, ha spiegato che si tratta di 40 società di capitali e 9 soggetti non residenti che hanno versato 98 milioni tramite F24 più altri soggetti che hanno fatto direttamente un bonifico al bilancio dello Stato per 135 milioni complessivi. Tra loro, nelle intenzioni del legislatore, ci dovrebbero essere Amazon, Google, Facebook e gli altri big del web: l’imposta infatti si applica alle società con oltre 750 milioni di ricavi l’anno nel mondo di cui almeno 5,5 da servizi digitali in Italia.
Sulla falsariga della proposta europea risalente al 2018 la digital tax nostrana, che ammonta al 3% del fatturato percepito sul territorio italiano, non grava sulle transazioni nei confronti dei consumatori finali né sulla vendita diretta di beni e servizi attraverso il proprio sito o sui servizi bancari digitali. Va applicata solo sui ricavi dalla fornitura di servizi ben definiti, come la “veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia”, la “messa a disposizione di un interfaccia multilaterale che facilità la comunicazione tra gli utenti, compresa la fornitura diretta di beni e servizi“, la “trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale”. A patto che il dispositivo dell’utente sia localizzato in Italia nel momento in cui guarda la pubblicità o usa la piattaforma per una transazione. Insomma: è una tassa sull’uso – per profitto – dei dati degli utenti. Disegnata per colpire la pubblicità online veicolata da grandi gruppi e le commissioni incassate, per esempio, da Amazon.
Un meccanismo che “discrimina le aziende in base alla nazionalità”, penalizzando le multinazionali statunitensi, aveva accusato l’amministrazione Trump l’estate scorsa, minacciando dazi come ritorsione. Da allora il clima internazionale è radicalmente cambiato: la Casa Bianca di Joe Biden si è detta a favore di una tassa minima globale che riguarderebbe anche i grandi gruppi del web. Un accordo potrebbe essere raggiunto già al G20 di inizio luglio, se i mini-paradisi fiscali europei – dall’Irlanda al Lussemburgo – non si mettono di traverso. Nel frattempo Roma è comunque andata avanti con la sua digital tax domestica. Con risultati non entusiasmanti. I 233 milioni raccolti non sono pochi se si considera che, per l’anno fiscale 2019, i primi 25 gruppi internet al mondo hanno pagato secondo Mediobanca solo 70 milioni di tasse. La cifra però è di gran lunga inferiore rispetto al gettito atteso come calcolato dalla relazione tecnica della legge di Bilancio per il 2019.
Che cosa non ha funzionato? L’anno scorso Beatrice Bonini e Giampaolo Galli dell’Osservatorio sui conti pubblici della Cattolica avevano anticipato che la stima di 700 milioni appariva eccessiva per diversi motivi: innanzitutto era ottenuta sommando la quota parte italiana della stima fatta dalla Commissione Ue per il gettito della Digital service tax nell’intera Unione ai ricavi derivanti dalla trasmissione dei dati raccolti dagli utenti, ma non teneva conto “delle moltissime esclusioni” previste. Non rientrano nel perimetro della tassa, per esempio, le vendite on line fatte dai produttori sui propri siti aziendali, “con il risultato che una piccola impresa che vende tramite Amazon viene penalizzata rispetto a un marchio famoso che vende sul proprio sito“. Secondo Bonini e Galli una previsione più accurata si sarebbe attestata intorno ai 120 milioni. Resta da capire se i soldi in più sono arrivati dai giganti del web o dalle imprese italiane dell’editoria e delle tlc.