Politica

Vitalizi, siamo alla farsa. Ecco il prezzo dell’onore perduto della classe politica italiana

Qual è il prezzo dell’onore perduto della classe politica italiana? Giusto qualche migliaio di euro al mese pro-capite, il prezzo di un vitalizio restituito a condannati per reati gravi, o di una doppia pensione generosamente calcolata con contributi figurativi inaccessibili a qualsiasi lavoratore. È una delle possibili conseguenze dell’attribuzione alle Camere del Parlamento di un potere dal norme arcano, autodichia. Uno strumento pensato come garanzia dell’indipendenza degli organi costituzionali che incarnano la sovranità popolare, ma che in cattive mani può trasformarsi in un canale di giustificazione posticcia di abusi e privilegi.

Come un micro-stato autonomo, ciascuna Camera è investita dell’autorità di dotarsi di proprie regole di funzionamento, deliberare sullo status e sul trattamento economico dei propri componenti, e soprattutto giudicare in merito ai ricorsi in caso di controversie giuridiche che investono componenti dell’organo – sia dipendenti che parlamentari. Si tratta di un’applicazione estensiva (e pertanto assai discutibile) del principio di separazione dei poteri dello Stato, con il quale si vorrebbero tutelare le Camere dal rischio di indebite interferenze e condizionamenti esterni, come quelli del potere giudiziario.

Purtroppo i nostri parlamentari non sembrano dotati di un grado di saggezza paragonabile a quella espressa da Spiderman col noto ammonimento: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Questa “legge dell’uomo-ragno” ha un corollario: da grande potere male esercitato scaturisce una grande senso di irresponsabilità. Con una ricaduta ulteriore: il grande discredito di chiunque abbia abusato di quel potere.

Di certo, l’uno-due della commissione Contenziosa e del consiglio di Garanzia del Senato che hanno restituito l’assegno vitalizio al pregiudicato ex-presidente lombardo Roberto Formigoni sembra aver messo a tappeto le aspirazioni di quei soggetti politici – soprattutto il Movimento 5 Stelle, che della battaglia contro i “privilegi della casta” ha fatto un suo tratto identitario – che in questi ultimi anni hanno tentato di ripristinare alcuni criteri minimi di buon senso e di “giustizia sociale” in quello che rimane un nervo scoperto della classe politica italiana.

Dissipando così quel poco di credibilità che nell’ultimo quinquennio quest’ultima aveva faticosamente tentato di riconquistare su quel fronte, dal taglio al finanziamento pubblico dei partiti – per inciso, una misura che attuata indiscriminatamente sta mostrando pericolosi effetti collaterali – ai nuovi meccanismi di ricalcolo dei vitalizi per ex-Parlamentari e consiglieri regionali, fino al taglio dei parlamentari. Non aiuta a riconquistare un briciolo di credibilità neppure la farisaica decisione dell’Aula del Senato di approvare tutte e tre le mozioni dei diversi schieramenti politici, che si limitano in buona sostanza a chiedere agli uffici competenti del Senato di rivalutare o disciplinare casi come quello di Formigoni.

Allora partiamo da qui, dall’orientamento dei cittadini nei confronti della propria classe politica, che oscilla tra il disincanto e l’ostilità aperta. Secondo il sondaggio Demos-Libera del 2020 i politici nazionali sono i soggetti che più di ogni altro hanno favorito l’espansione della mafia in Italia (83%), seguiti dai politici locali (81%) e dai partiti (81%). Ben l’88 % degli intervistati – un vero plebiscito – ritiene che la corruzione sia diffusa quanto o più degli anni di tangentopoli.

Un sondaggio Eurobarometro del 2017 conferma che il pagamento di tangenti e gli abusi di potere sono ritenuti una prassi abituale nei partiti per il 66% e tra politici nazionali e locali per il 60% degli italiani, percentuali tra le più elevate in Europa. Un legame oggi più che mai sfilacciato, corroso dal discredito, dovrebbe collegare i politici eletti nelle istituzioni ai cittadini rappresentati. Questo espone le loro deliberazioni al sospetto – non sempre infondato – di essere solo soprattutto risposta a richieste particolaristiche, favoritismi, collusione d’affari. Alimentando così un meccanismo perverso di selezione dei peggiori, che spinge a impegnarsi nella carriera politica solo chi vi cerca canali di facile ascesa personale.

In una democrazia inquinata i nuovi “politici d’affari”, simili agli antenati portati agli onori delle cronache di “mani pulite”, badano al sodo, ossia ai guadagni – in termini monetari, sia quelli in busta paga che le prebende sottobanco, ma anche di relazioni, contatti, entrature, informazioni – cui possono puntare nella loro traiettoria professionale nelle istituzioni pubbliche.

Resta da chiedersi perché proprio adesso arrivino questi colpi di mano parlamentari, quale sia il senso di questa “restaurazione” di una versione parodistica dell’Ancien Régime partitocratico, che però – seguendo la legge di ripetizione della storia enunciato da Karl Marx – dalla versione tragica emersa con “mani pulite” oggi vira inesorabilmente verso la farsa. Sicuramente pesa l’eclissarsi delle impalpabili strutture di partito, ormai assimilabili ad assemblaggi precari di cordate e potentati locali, incapaci – ma in fondo anche disinteressati – a recuperare qualche briciola della credibilità perduta agli occhi dei cittadini.

Del resto il tema sembra appassionare sempre di meno l’opinione pubblica, investita di ben altre preoccupazione nell’emergenza economica-sanitaria in corso. Almeno, questo parrebbe il calcolo degli esponenti di centro-destra che marciano compatti alla riconquista dei privilegi perduti, sotto l’ombrello di un governo delle larghissime intese nel quale il capiente ombrello della guida “tecnica” sembra assumere una valenza soporifera e deresponsabilizzante, anche rispetto a decisioni politiche di piccolo cabotaggio, come quelle sui vitalizi. In fondo, il vessillo della lotta agli sprechi della politica ha già un portabandiera indiscusso, per l’appunto un Movimento 5 Stelle in crisi nei sondaggi, dunque a nessun altro soggetto politico conviene cavalcare un tema altrui per conquistare consensi.

Di certo, non vi è nulla di illegittimo nelle decisioni “sovrane” prese dagli organi interni alle Camere, per quanto schizofreniche esse risultino – e di qui l’appello de Il Fatto alla Presidente del Senato per tentare la strada dell’attribuzione di un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato e rimediare al danno. Decisioni formalmente legittime, eppure profondamente delegittimanti, i cui costi reali – le tossine della sfiducia verso la classe politica e i governanti – rischiano di incidere a lungo sulla qualità dei nostri processi democratici.