Ritorna ciclicamente nel dibattito pubblico il tema dell’inserimento di famiglie rom nelle case popolari. C’è chi afferma che per cultura non possono e non vogliono accedervi; chi sostiene che, in nome di una indecifrabile “italianità” il loro ingresso è subordinato ad una fila organizzata su base etnica; chi ritiene che il numero degli alloggi pubblici da destinare all’emergenza abitativa sia totalmente insufficiente da consentire di coltivare l’illusione; chi considera i cittadini autoctoni così razzisti da escludere un qualsiasi passaggio dal campo rom alla casa popolare senza passare per le rivolte popolari.
E così, almeno a Roma, da un quarto di secolo, le “politiche speciali” disegnate sulle comunità rom, quando prevedono la fuoriuscita dagli insediamenti, si muovono esclusivamente su modelli che prevedono una collocazione abitativa al di fuori del territorio comunale o contributi all’affitto. L’ultimo Piano rom, quello predisposto dalla Giunta Raggi, prevede infatti per i rom dei campi bonus all’affitto, inserimento in strutture del privato sociale, rimpatrio assistito, collocamento in altri comuni italiani. Il tutto condito da tutta una serie di azioni di contorno che comportano il consueto fiume di denaro dedicato ad una presunta inclusione. I risultati rimandano puntualmente ad uno sconsolato fallimento.
Solo chi frequenta i campi rom della Capitale si rende però conto che, malgrado tutto e al di là delle azioni sempre calate dall’alto, qualcosa di nuovo sta accadendo. Le giovani generazioni ambiscono sempre più a trovare soluzioni al di fuori degli asfittici container nei quali sono nati e cresciuti e il loro sentirsi pienamente cittadini italiani, o meglio ancora romani, li indirizza verso percorsi ordinari, quelli che percorrerebbe qualsiasi concittadino nella medesima condizione.
Noi lo ripetiamo da anni: a Roma un Ufficio Speciale rom è inutile, se non dannoso, e lo sono ancora di più un Piano rom con bandi e progetti dedicati e presunti esperti chiamati a redigerli e ad attuarli. Gli abitanti dei campi non sono “disabili sociali”, non si percepiscono cittadini diversi dagli altri e le soluzioni ai problemi li cercano comportandosi esattamente come un qualunque cittadino romano. Arrivando così a sconfessare l’ennesima “bufala”, quella che comunque non potrà esserci mai una relazione indolore tra gli “zingari” e la “case popolari”.
Non è questione di essere “buonisti” o di avere a cuore il tema. Si tratta solo di provare a leggere e interpretare i numeri che Associazione 21 luglio ha elaborato all’interno di un rapporto di prossima presentazione e che riguarda 7 dei 15 insediamenti formali della città di Roma.
Se andiamo nel “villaggio” di La Barbuta ci accorgeremo che le famiglie che hanno presentato domanda per l’accesso ad un alloggio di edilizia residenziale pubblica sono state tra il 2016 e il 2020, 62, pari a 278 persone. Nel solo triennio 2018-2020 sono state 41, pari a 220 persone, le famiglie assegnatarie. Nel “villaggio” di Castel Romano, collocato lungo la via Pontina le famiglie che nel quinquennio 2015-2020 hanno presentato domanda per l’accesso ad una casa popolare sono state 55, pari a 226 persone. Nell’ultimo triennio sono state 35, pari a 135 persone, le famiglie assegnatarie.
Se mettiamo assieme i numeri registrati negli altri insediamenti oggetto della ricerca – Camping River, Candoni, Gordiani, Salone e Salviati –, scopriamo che tra il 2017 e il 2020 hanno presentato domanda 77 famiglie, pari a 415 persone. I nuclei assegnatari nel solo periodo 2018-2020 sono stati 36, pari a 193 persone. Sommando i dati si evincono elementi incontrovertibili.
Mentre due anni fa nel quartiere di Casal Bruciato “fascisti” e “antifascisti” si contendevano a colpi di slogan l’attenzione delle telecamere, a Roma dal 2015 al 2020 sono state almeno 194 le famiglie dei campi rom – pari a 919 persone – che hanno regolarmente presentato in maniera autonoma la domanda per l’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica. Di esse, solo nel periodo 2018-2020 e unicamente per gli insediamenti considerati, ben 112 famiglie, pari a 548 persone, hanno avuto l’assegnazione di un alloggio. Senza corsie preferenziali, senza rivolte in piazza, al di fuori delle azioni del Piano rom.
Se poi a questi numeri aggiungiamo che nei campi romani 735 persone hanno legittimamente chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza e che il 65% del totale dei residenti nei campi si sia attivato per ottenere contributi economici riservati ai cittadini indigenti, abbiamo la prova definitiva che la città di Roma non è affatto razzista quando si percorrono vie ordinarie. Il vero problema è la diversità che abbiamo inventato e istituzionalizzato attraverso dispositivi speciali (Piani, Uffici, bandi), utili a creare quel “mostro urbano” denominato “zingaro”. E se vogliamo risolvere il problema non dobbiamo combattere il secondo, bensì i primi.