“Lo sapevano tutti”. Nella notte del suo interrogatorio davanti ai pm di Verbania, a un certo punto, Gabriele Tadini l’ha detto chiaramente: il titolare Gigi Nerini era “del tutto consapevole dell’abituale ricorso ai forchettoni” per disabilitare i freni della cabina 3 della della funivia Stresa-Mottarone, teatro dell’incidente di domenica che ha provocato 14 morti. Nella richiesta di custodia cautelare in carcere per lo stesso dipendente dell’impianto, per il gestore e per il direttore di esercizio Enrico Perocchio, la procura riporta testualmente la frase esclamata da Tadini che, ad avviso di chi indaga, “collima con l’interesse imprenditoriale ed economico” da parte di Nerini di “forzare le procedure di sicurezza, pur di non sospendere” il via vai delle cabine da Stresa al Mottarone “con conseguenti ripercussioni economiche e necessità di esborsi per finanziare gli interventi necessari”.
Nella richiesta Tadini viene anche accusato di aver annotato il falso nel registro giornale dell’impianto parlando di “esito positivo dei controlli” sul funzionamento dei freni, sia il giorno della tragedia che quello precedente, malgrado avesse “sentito provenire dalla cabina un rumore-suono caratteristico riconducibile alla presumibile perdita di pressione del sistema frenante della cabina che si ripeteva ogni due-tre minuti“. Al solo dipendente – oltre all’omicidio colposo plurimo, alla rimozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e alle lesioni colpose gravissime – viene contestato per questo anche il reato di falso. La richiesta è motivata con la sussistenza di tutte e tre le esigenze cautelari: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. In particolare, scrivono i pm, continuando a lavorare nel settore, Tadini, Nerini ePerocchio potrebbero reiterare il reato mettendo ancora in pericolo la sicurezza pubblica. Tutti e tre si trovano nella casa circondariale verbanese da mercoledì. Nerini e Perocchio, sempre secondo i pubblici ministeri coordinati dalla procuratrice Olimpia Bossi, “avallarono” la scelta di Tadini “rappresentandogli la necessità di non interrompere il funzionamento della funivia, inevitabile se si fossero dovuti effettuare interventi di manutenzione di portata più estesa”.
Tadini è pronto ad ammettere sabato – nell’interrogatorio di garanzia in programma davanti al gip Donatella Banci Buonamici – di aver disattivato il sistema di freni d’emergenza, inserendo i “forchettoni” per evitare il blocco dell’impianto. “Ho corso il rischio ma l’ultima cosa al mondo che pensavo è che si potesse rompere il cavo traente”, ha detto al suo legale Marcello Perillo durante un colloquio in carcere. Lo ha riferito lo stesso difensore, descrivendo Tadini come “pentito, molto provato e distrutto” e annunciando che chiederà per lui gli arresti domiciliari. “Si è reso conto: ha la consapevolezza di avere vittime sulla coscienza e sta cercando di superarla con la fede”, ha detto. Sostenendo che a suo modo di vedere “non sussiste il pericolo di fuga” con cui la Procura ha motivato il fermo.
Da quanto trapela Tadini era a lavoro la domenica del disastro, si trovava nella struttura della funivia che è nell’area del lido di Stresa. Era vicino ai monitor quando la telecamera del sistema di videosorveglianza si è spenta e ha intuito che qualcosa non andava. Non ha visto nulla, né sentito il tonfo della cabina numero 3 che si schiantava al suolo, sulla terra battuta, prima di rotolare e finire la sua corsa contro un albero. Se resta da stabilire perché la corda trainante si sia spezzata, Tadini si è assunto la responsabilità di aver disattivato il sistema frenante di sicurezza, di fronte ai blocchi continui che avrebbero potuto costringere a chiudere l’impianto di risalita. Una decisione quella di lasciare inserito il cosiddetto forchettone che ha provocato la caduta della cabina in cui hanno perso la vita 14 persone. Nella richiesta firmata dalla procura di Verbania, dopo i fermi scattati martedì all’alba, Tadini è accusato di non aver segnalato “tempestivamente all’Ustif del Piemonte e Valle d’Aosta (Ufficio speciale per i trasporti ad impianti fissi – competente per territorio – del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) – tutte le anomalie od irregolarità riscontrate nel funzionamento dell’impianto”.
“Questa vicenda – ha aggiunto il legale – è un dramma per le vittime e per lui. Io vedrò di fare il mio lavoro, dovrò fare i conti con la sua scelta processuale, che ovviamente dipenderà anche da ciò che ha già dichiarato”. Nel colloquio col suo cliente, ha detto, non si è “entrati nelle motivazioni” della scelta né “parlato del coinvolgimento di altri”: Tadini gli ha spiegato in modo generico che il forchettone “è stato messo per velocizzare” il movimento della cabina. “Sono 38 anni che lavora in questo ambiente”, ha detto, “è una persona professionale e preparata, con lui approfondirò le motivazioni”.
Secondo la procura, dopo le sue parole, c’è il rischio di “accordi collusivi” tra Nerini e Perocchio, “finalizzati ad addossare tutte le responsabilità in capo a Tadini”. In relazione al pericolo di fuga, in più, i pm mettono in luce “l’aspetto risarcitorio, relativo ai danni morali e patrimoniali” per le famiglie delle vittime, che i tre sarebbero chiamati a dover versare in caso di condanne.
Inoltre, sempre nell’atto, i pm fanno notare, nella parte sul pericolo di reiterazione del reato, che è “coincidenza significativa e singolare” che, dopo il suo arresto, anche una funivia a Rapallo, in Liguria, di cui Perocchio è direttore di esercizio, è stata chiusa “per manutenzione”. E ancora gli inquirenti mettono in luce che in un’altra “attrazione su rotaia” gestita da Nerini, la Alpyland, si sono verificati due incidenti che hanno provocato “lesioni”. La stessa procura, infine, nella richiesta chiarisce che al momento “non è possibile affermare” se la rottura della fune sia stata “un evento autonomo o collegato ai segnalati malfunzionamenti del sistema frenante”. Giovedì i carabinieri di Stresa, guidati dal capitano Luca Geminale, sono tornati sul luogo dell’incidente insieme al professor Giorgio Chiandussi, docente di Ingegneria meccanica al Politecnico di Torino e consulente della procura. L’accademico ha osservato da vicino la fune traente e ha fatto scoprire una parte della cabina, quella a cui si attaccavano i cavi. Tra le ipotesi c’è anche quella che il cavo si sia sfilacciato proprio a causa della presenza del forchettone.
Ha collaborato Simone Bauducco