L’ultima volta il mondo era molto diverso da come ci appare oggi. L’Unione europea non era stata ancora allargata, Silvio Berlusconi era all’inizio del suo secondo incarico come presidente del Consiglio, George W. Bush era il presidente degli Stati Uniti, in Germania la CDU aveva scelto di candidare Edmund Stoiber nella corsa a Cancelliere contro Gerhard Schröder, scartando così Angela Merkel. Padre Pio non era stato ancora proclamato Santo da Giovanni Paolo II, il Brasile non aveva ancora vinto il suo ultimo Mondiale, Messi non aveva giocato una partita neanche con il Barcellona “C” e le Las Ketchup avrebbero iniziato a funestare le orecchie del mondo con Asereje solo qualche settimana più tardi.
È in quest’epoca sfumata e lontana che si innesta la storia, rigorosamente con la minuscola. Una vicenda che in quell’estate del 2002 i tifosi speravano di dimenticare il più in fretta possibile ma che in seguito è stata recuperata, distillata, fasciata di lustrini e di paillettes. Perché niente come la sconfitta più rovinosa si presta a essere immolata sull’altare del nostalgismo. È la storia di un Venezia minimo e spiantato, più ammasso che squadra, armata sgangherata scesa in guerra con munizioni a salve e spade spuntate. Irrimediabilmente ultimo, dall’incipit al punto finale, si è trascinato fino all’abisso per poi sprofondarci dentro. Il 5 maggio del 2002 è un giorno pieno di altro. Ei fu, siccome immobile. Non solo Napoleone Bonaparte. Ma anche Vieri, Zanetti, Materazzi e Moratti. È il pomeriggio degli schiaffi sul cuore di Cuper e delle lacrime di Ronaldo, di uno scudetto che l’Inter perde senza nessun motivo apparente. Una delusione collettiva che non ammette altri tipi di narrazione. Il Venezia scivola in B mentre tutti sono impegnati a guardare altrove. Il suo saluto al grande calcio si consuma nell’indifferenza, nel tedio che circonda le notizie annunciate con largo anticipo. È un arrivederci che assume i contorni marcati dell’addio, un purgatorio che si dilata fino a diventare inferno senza uscita. Almeno fino a ieri sera.
Perché l’1 a 1 contro il Cittadella (con il pareggio all’ultimo minuto di recupero del veneziano doc Bocalon, storia nella storia) è stato l’incantesimo che ha rotto il sortilegio, che ha riportato i lagunari in Serie A dopo diciannove anni di società liquefatte, progetti ostentati, fallimenti rumorosi. Quello che ritorna è un club molto diverso da quello che ha salutato. Internazionale nella proprietà e nella vocazione, ma allo stesso tempo espressone di una località così particolare da diventare totalizzante. La sua casa, il Luigi Penzo, è il simbolo di una contraddizione. La sua posizione racconta piuttosto bene la natura della città: è costruito sull’isola di Sant’Elena, le sue tribune si affacciano sulla laguna, viene raggiunto dalla squadra in vaporetto. Eppure è allo stesso tempo così distante dal suo popolo. I suoi 7500 seggiolini lo rendono il più piccolo della prossima Serie A (addirittura tremila posti in meno rispetto all’Alberto Picco di La Spezia), ma riempirlo è comunque un’impresa. Nel 2018/2019, l’ultima stagione interamente a porte aperte, l’affluenza media è stata di 3681 spettatori. Meno della metà della capienza dell’impianto. Sognare in grande senza la spinta del pubblico è un qualcosa che va oltre l’utopia. Questione di bacini di utenza, di botteghino o, più volgarmente, di entrate.
Paolo Zanetti ha imbullonato la sua squadra intorno al telaio di un 4-3-2-1 sorretto dal giro palla, dall’uno-due, dall’attacco collettivo fatto di nove calciatori nella metà campo avversaria nel tentativo di cucire, allargare, colpire. Ma i dubbi sulla tenuta non riguardano il campo. Il rischio è di trovarsi imprigionati a metà del guado, di rappresentare una dimensione troppo piccola per andare avanti e ormai troppo grande per poter vestire comodamente i vecchi panni. Per anni Venezia è stato centro costretto a vivacchiare nella periferia del calcio. La sua parabola è stata irregolare, la sua storia un alternarsi di lunghe fasi di tenebra e di qualche timido raggio di sole. La Coppa Italia del 1941 con Ezio Loik e Valentino Mazzola è una foto in un album di ricordi così impolverato da non venire neanche più aperto. La seconda vita dei lagunari parte nel 1986. Un imprenditore che non era riuscito ad acquistare l’Udinese si guarda intorno a caccia di un nuovo affare. È il re degli ipermercati “Mercatone”, la sua frase spot è “la qualità ai prezzi più bassi d’Italia”.
Alla fine mette gli occhi sul Venezia, impantanato in Serie C2. Quell’uomo d’affari si chiama Maurizio Zamparini. A qualcuno ricorda il Capofortuna di Rino Gaetano, per altri è qualcosa in più di un despota. Il suo primo annuncio sembra più retorica che un manifesto programmatico. “Riporterò Venezia in Serie A, anzi la porterò in Europa”, giura. Venezia sarà il suo romanzo di formazione, la dimensione che affilerà la sua lingua e farà avvampare il suo carattere. L’anno dopo compra anche il Mestre. E procede alla fusione dei due club. Nel 1990 affida la panchina ad Alberto Zaccheroni. L’allenatore ha appena 37 anni e viene dall’Interregionale. Le sue idee però sono già chiare. Prende la squadra e la riporta in Serie B dopo 24 anni. Nelle due stagioni successive viene sempre sollevato dall’incarico e poi ripreso. Sono le prove degli esoneri in larga scala che diventeranno pane quotidiano nel futuro prossimo. La cadetteria diventa l’habitat naturale del Venezia. Almeno fino al 1997. Zamparini stavolta assume Walter Novellino. E la storia cambia all’improvviso.
La stampa inizia a prendere confidenza con il 4-4-2 dell’allenatore. E anche con le strane abitudini del suo presidente. Zamparini non riesce a vedere una partita intera. Mai. Dopo essere stato seduto per un po’ di alza e se ne va. Fuma, entra negli spogliatoi, passeggia per le strade con una radiolina. È un rituale che porta anche bene. Perché al primo anno arriva la promozione in A. Nella massima categoria Zamparini diventa figura di significato. Si autoproclama all’opposizione, ma flirta continuamente con chi è al governo. Alla quinta giornata il Venezia perde 0-2 contro il Milan di Zaccheroni. “Pensavo che in Serie A le grandi squadre giocassero con 11 e non con 12 giocatori – dice il presidente dei lagunari – Il loro dodicesimo uomo è il guardalinee: ho visto un fuorigioco netto di tre metri e se la tv lo confermerà dico che questo guardalinee era in malafede”. Solo che le immagini raccontano un’altra storia. Maurizio decide per la retromarcia, scegliere di smentire sé stesso. “Le immagini televisive mi hanno dato torto e quindi chiedo scusa al guardalinee, non era colpa sua. È chiaro però che esiste una certa sudditanza psicologica e penso che un episodio analogo, se fosse capitato al Milan, sarebbe stato segnalato”.
L’avvio di stagione è un incubo. Dopo 16 giornate il Venezia è penultimo. Poi Zamparini decide di portare in Laguna un attaccante inconfondibile nel volto e nel tocco di palla. Si chiama Alvaro Recoba e all’inter è diventato un rebus che nessuno è stato in grado di risolvere. Massimo Moratti stravede per lui. Ma la sua stima non è spesso giustificata. Fa niente. Il presidente dell’Inter lo trasformerà comunque nel giocatore più pagato del mondo. Un record da 15 miliardi a stagione. Gli allenatori faticano a incastrarlo in un sistema collettivo, anche perché quel solista a volte stecca. È un potenziale fenomeno intrappolato nel ruolo di “gingillo”, secondo un’inarrivabile definizione di Furio Zara. Non con la maglia del Venezia. In 19 partite segna 10 gol. E trascina la squadra fino all’undicesimo posto. Il colpo di scena arriva un paio di settimane dopo. Il 24 gennaio il Venezia pareggia in casa per 1-1 contro il Bari. Al 77’ Novellino toglie Recoba e mette dentro Tuta. L’attaccante brasiliano segna al 90’ ma nessuno esulta. Anzi, tutti sembrano insultarlo. È un caso nazionale.
Si parla di combine, di sanzioni disciplinari. Anche perché Tuta lancia una frase sinistra: “Maniero mi ha detto che non dovevo segnare perché era meglio che la partita finisse 1-1”. Frasi che fanno arrossire le guance a un movimento che aveva vissuto ciclicamente lo stesso incubo. “Tuta non sa una parola di italiano – dice Zamparini e non ha non ha capito le parole che gli diceva Maniero. I ragazzi sono ingenui, tanto che ho confermato il premio partita”. L’anno dopo Zamparini chiama a Venezia Spalletti. La squadra non decolla, a novembre è già nell’acqua alta. Il presidente nota che l’allenatore si veste sempre di nero. E lo chiama “becchino”, lo accusa di portare “sfiga“. L’esonero è servito. Al suo posto ecco Materazzi. Poi ci ripensa. Caccia Materazzi, riprende Spalletti. E nessuno visse felice e contento. Dopo un anno in B, Prandelli riporta la squadra in massima serie. Solo che perde le prime 5 partite. Zamparini lo conferma pubblicamente. Poi ci ripensa. Sempre pubblicamente. Arriva Buso. Che se ne va dopo solo un turno. La squadra viene affidata ad Alfredo Magni. Ma è già spacciata. Il 5 maggio del 2002 c’è l’ultima apparizione della Serenissima in Serie A. Poco dopo Zamparini metterà le mani sul Palermo e saluterà la Laguna. Si apre una lunga fase di instabilità. Il club passa di mano in mano. E poi fallisce. Due volte. Più prosa che poesia. Almeno fino all’arrivo della proprietà americana. Almeno fino alla promozione conquistata ieri sera.