Egan Bernal, Damiano Caruso, Simon Yates. Alla partenza della penultima tappa del Recovery Giro, la Verbania-Alpe Motta di 164 chilometri e le ultime arrampicate, forse le più dolorose perché la stanchezza è il nemico più subdolo di ogni corridore. Dunque, è questo il podio virtuale. Ma l’ambizioso Yates, che in salita oggi come oggi va più forte degli altri – anche se non di tanto e questo è il suo limite – vuole perlomeno spodestare il ragusano Caruso, perché il distacco di venti secondi è abbastanza esile e sulle pendenze più dure Damiano non ha lo spunto di Simon.
L’assalto alla maglia rosa è una scommessa più col destino (che il britannico si augura baro) che con la realtà. Quindi, a Caruso non resta altro che attaccare. Andare in contropiede. Per difendere la seconda piazza. Quanto alla maglia rosa, Bernal, anche in crisi, ha tenuto botta. Ha perso il minimo aziendale. Il suo vantaggio in classifica è apparentemente inespugnabile. A meno che. A meno che Bernal non incappi in una giornata davvero storta. Yates e i suoi della Bikeexchange lo metteranno alla frusta. E vedranno se è alla frutta. Pure Caruso, che dei tre è il più forte nelle corse contro il tempo, magari un pensierino l’ha fatto. Mai dire mai.
La sfida, infatti, nel ciclismo, è rendere possibile l’impossibile. Almeno, lo era nel ciclismo di Bartali e Coppi, ma lo è stato anche in quello dello scorso anno, quando, alla penultima tappa i due corridori migliori del Giro erano divisi da pochi centesimi di secondo, e quindi si sarebbero giocati il tutto per tutto nei quindici chilometri della cronometro finale, da Cernusco a Milano. E così fu: l’australiano Jai Hindley che indossava la maglia rosa venne superato in tromba dall’inglese Tao Geoghegan Hart. Vinse la sfida. Superò i limiti (suoi). Spostò avanti le frontiere del suo possibile. Scovò energie residue, e le tradusse in un ultimo epico sforzo. La sua fu la ribellione all’idea della sconfitta. Hindley non riuscì a vincere il duello. In inglese, in circostanze del genere, gli sportivi dicono di trovarsi to face. Di guardare cioè il pericolo faccia a faccia, e di affrontare così il pericolo.
Nel ciclismo, i corridori si guardano in faccia un attimo, per capire se conviene attaccare in quel momento o se il tuo avversario non sta bene. Scrutano le rughe della fatica, valutano il sudore, osservano la smorfia della bocca, ascoltano il rumore della pedalata che può essere leggero o pesante. L’esperienza è l’arma dei campioni. Sanno se possono osare e quanto possono osare.
Yates è pragmatico. Non a caso lo chiamano lo Scienziato. Analizza la corsa. Soppesa vantaggi e svantaggi. Bernal, invece, è scaltro. Se è in forma e sta bene, nessuno lo batte sulle pendenze più cattive. Ha sofferto di mal di schiena. Avrà dovuto sottoporsi a delle cure specifiche, con l’avallo dell’Uci, l’Unione ciclistica internazionale, per evitare sospetti (sempre in agguato). L’Ineos è squadrone che non lascia nulla al caso. Se ha schierato Bernal al Giro e non al Tour, avrà avuto motivi concreti. Un conto è affrontare Yates. Un altro, Pogacar e Roglic. Ci fossero stati loro a questo Giro, avremmo visto un’altra corsa.
Ma ogni corsa a tappe fa storia a sé e gli assenti non hanno mai ragione. Il Giro di quest’anno era più duro di quello dello scorso anno. La cronometro finale è stata quasi raddoppiata. Sono mancati alcuni protagonisti, vuoi per sfortuna (Mikel Landa, per esempio, sarebbe stato il vero terzo incomodo), o per calcolo sbagliato (Remco Evenepoel sbattuto subito al Giro, senza aver fatto prima una corsa, nove tribolati mesi dopo il gravissimo incidente del Lombardia, lo scorso agosto). Bernal ha giocato benissimo le sue carte, sfruttando la compattezza della squadra. Sfida vuol dire competizione. E la competizione mette a nudo l’atleta.
“Ciclismo sport vero per uomini veri” si legge su un muraglione di neve, scritto da lungo i tornanti dello Spluga. In testa a trenta chilometri dall’arrivo, udite udite!, sono in quattro e uno di costoro è Damiano Caruso, col fido Pello Bilbao, con Romain Bardet, con l’australiano Michael Storer. Sono scappati nella discesa dal san Bernardino, dopo una lunga estenuante salita che ha setacciato il plotone. Dietro, il gruppo della maglia rosa si è così ridotto a 25 unità. La seconda ascesa del menu di giornata, al passo Spluga, corrobora il coraggioso attacco di Caruso e soci. Yates fa l’attendista. Confida nell’Alpe Motta, nei suoi meravigliosi e, spera, micidiali tornanti, con pendenze non assassine ma pur sempre velenose: 7,6 per cento di media, con drizzate al 13 per cento. Di quelle che all’inizio sembrano carezze e poi finiscono con colpi di scudiscio.
A guardare il volto di Bernal, pare che l’umore gli vada sul grigio. Lo circondano Jonathan Castroviejo e Daniel Martinez, mentre l’espressione di Yates è indecifrabile, enigmatica. I quattro in testa mantengono 35-40” di vantaggio, la discesa è come un emozionante trailer cinematografico, i primi della classifica sono come i grandi attori che ti fanno capire, per come si muovono e come reagiscono alle sollecitazioni degli avversari, se la loro tappa sarà bella o brutta.
Si passa Campodolcino, si piglia la vecchia strada per Madesimo, tragitto caro a Giosuè Carducci. I quattro hanno 41” secondi di margine. L’espressione di Bernal muta. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Yates tallona Bernal. Bardet e Caruso si parlano. Interessi comuni. Castroviejo si rialza, il suo compito è concluso. Più avanti, è Storer che si rialza. Bernal recupera cinque secondi, mancano meno di sette chilometri. La salita comincia a far vittime. Si stacca Pello Bilbao, Caruso l’affianca e gli dà una pacca sulle spalle. Gesto fantastico, nonostante la fatica. Bardet si sposta sul ciglio di un tornante. Spia giù in basso il gruppo Bernal che vede Almeida in difficoltà. I tornanti aiutano a respirare, ma servono ai “rilanci”. A meno cinque dall’Alpe Motta, il vantaggio si assottiglia: 33”. Con Bernal restano il fido e stoico Martinez, Yates, Vlasov, Carthy e Almeida che si è riaccodato. Caruso continua a tirare, Bardet va al traino. Non gli dà il cambio. Non ce la fa più.
Due contro sei. I migliori otto della classifica. Comunque finisca, Caruso ha raccolto la sfida. Non l’ha evitata. L’ha cercata. A meno 3 dal traguardo, Caruso ha ormai solo una ventina di secondi. Di tutto il Giro, il suo è l’attacco più bello. A meno due Caruso si stufa di tirare il francese. Lo stacca. Dietro, Yates non resiste al ritmo di Martinez. Caruso è affiancato dal solito tifoso cretino (senza mascherina) che lo affianca e lo disturba. Il tifo per il ragusano è alle stelle. Scena da prima della pandemia. L’ultimo chilometro alle cinque in punto della sera, vede Damiano Caruso con 21” di vantaggio. Pure Martinez molla. Bernal è solo. Il resto, sparpaglìo. Arrivano tutti ondeggiando, devastati dalla fatica. Ma non Caruso. Che vince all’antica: 24” su Bernal. Un grande successo. Non vincerà il Giro, ma ha vinto il Giro di chi ama il ciclismo. Sull’Alpe Motta è nato un campione.