Emorragia di tifosi, difficoltà a fare presa sui più giovani, resistenza a ogni ipotesi di rinnovamento, incapacità di creare un nuovo racconto epico. Poi è arrivata la pandemia ed è stata il colpo finale sulla credibilità, il successo e la profittabilità economica di un sistema in profonda crisi endemica. Ilfattoquotidiano.it ha chiesto un'analisi a Marco Bruno, sociologo dei processi culturali e della comunicazione e professore alla Sapienza di Roma: "Europei cruciali per la nuova narrazione"
Buona parte del futuro dipenderà da come verrà sciolto un paradosso. Perché il calcio ha problemi astratti che necessitano di risposte concrete. Alcuni sono congeniti e ciclici: emorragia di tifosi, difficoltà a fare presa sui più giovani, resistenza a ogni ipotesi di rinnovamento, incapacità di creare un nuovo racconto epico del pallone. Altri sono contingenti e non necessariamente inediti, ma sono diventati opprimenti grazie agli effetti della pandemia. Casse prosciugate, bilanci in rosso, obsolescenza delle competizioni internazionali, non reclamano soltanto soluzioni immediate. Impongono una scelta fra due modelli alternativi. O si include e si ridistribuisce la ricchezza o si abbraccia l’elitarismo dei grandi club. Beati gli ultimi che resteranno ultimi, amen. In ballo c’è la lotta contro l’estinzione del pallone così come lo conosciamo adesso. E una decisione sbagliata rischia di essere irreversibile e fatale. Ma gli attori del calcio europeo non possono più scegliere di non scegliere.
Il naufragio della Super Lega ha rinviato la discussione, ma ha anche fatto capire che una nuova epoca è alle porte. E c’è da intendere solo se la finale di Champions League di stasera sarà l’ultima partita della vecchia era o la prima di una nuova età. Un cronosisma alla Kurt Vonnegut che stordisce e che attenua la possibilità di orizzontarsi. Serve una nuova prospettiva. Possibilmente più profonda. Così, dopo mesi di racconti giornalistici, ilfattoquotidiano.it ha provato la via accademica. E ha chiesto in prestito una bussola a Marco Bruno, sociologo dei processi culturali e della comunicazione e professore alla Sapienza di Roma. “Con una visione ottimistica direi che questa sarà la prima partita di un nuovo mondo – spiega Bruno – perché gli strascichi della pandemia occuperanno una porzione importante di futuro. Abbiamo visto cambiamenti che vanno oltre il conteggio del numero di tifosi presenti allo stadio. Ci siamo abituati ai surrogati dello spettacolo, abbiamo fatto i conti con una nuova normalità che prevede controlli e schedature, ulteriori a quelle già da tempo presenti allo stadio. Non sono cose che ci lasceremo dietro facilmente”.
Manchester City-Chelsea, però, ha un respiro circoscritto nel tempo. Novanta minuti (salvo supplementari) che metteranno fine alla prima stagione interamente giocata in una situazione di emergenza sanitaria permanente. È per questo che il banco di prova più importante arriverà solo fra qualche settimana. “Sono molto curioso di vedere gli Europei – aggiunge Bruno – è lì che si giocheranno le sfide più importanti. Si testerà effettivamente la presa sul pubblico, ci si confronterà con una narrazione che riguarda molti più spettatori e Paesi. La Nazionale cambia il racconto del calcio, che ritorna nazionalistico. Per questo, mi chiedo, quale sarà la narrazione di questi Europei dove la situazione è diversa non solo da nazione a nazione, ma anche da stadio a stadio?”. Un indizio è sotto il nostro naso da tempo. Anzi, da anni. Perché la scelta di non mettere mano al logo, utilizzando Euro2020 dodici mesi più tardi, ha un significato ben preciso. “Per altri prodotti si sarebbe fatto un re-branding – afferma il professore – ma questo avrebbe cambiato il racconto calcistico. Bisogna capire se c’è stata un’analisi costi/benefici che ha spinto a vendere il merchandising già stampato con quel logo oppure c’è la scelta di usare simbolicamente la pandemia? L’idea della sospensione è potente. Questo è l’Europeo che abbiamo dovuto saltare, che avremmo dovuto giocare lo scorso anno. E questa affermazione è plastica ed esplicita”.
Una scelta narrativa, dunque, che si inserisce in un momento molto particolare. Il racconto del calcio sta cambiando in maniera veloce e irreversibile. Il linguaggio del pallone è diventato più asettico, scientifico. E per questo meno inclusivo. Ma c’è anche un altro aspetto. La retorica ha fagocitato l’epica. Completamente. Il calcio parla in continuazione, ma racconta sempre meno. “Lo sport ha sempre avuto una grande capacità nel raccontare storie, a usare il “viaggio dell’eroe” – sottolinea Marco Bruno – ma ci sono degli elementi che negli ultimi anni hanno reso più difficile la lettura di questa tendenza. Innanzi tutto c’è un’estrema frammentazione delle storie. Poi c’è il fatto che ogni racconto è diventato storytelling. E se tutto diventa storytelling, anche la cronaca di una partita, se si utilizza sempre lo stesso tono, finiamo col perdere la forza, l’unicità della narrazione. Organizzare un contenuto in forma di storia lo aggancia all’emozione. Noi adesso stiamo affrontando un sovraccarico di emozioni che stanno diventando abitudine“. Ma non è ancora finita. Perché la crisi della narrazione riguarda proprio le peculiarità di ciò che si sta raccontando. “Il gesto tecnico è stato sempre agganciato a una narrazione più ampia – afferma – ora invece è sommerso dalla cultura dell’highlight. E se tutto è highlight, se la fruizione è tutta in questa maniera, si fa fatica a legare il gesto a qualcosa di più grande e strutturato”.
Basta tutto questo a spiegare perché, a differenza degli altri sport, il calcio fa fatica a costruirsi una propria epica? Evidentemente no. “L’epica ha bisogno anche di un investimento emotivo, affettivo – continua Bruno – ti devi innamorare di un giocatore e di una squadra. Da anni ormai è chiaro che un calciatore può cambiare squadra in qualsiasi sessione di calciomercato, quindi siamo sempre sul chi vive. Questo crea disincanto. Il senso di appartenenza è ancora presente, ma con una dose di cinismo e distacco dai protagonisti. E questo potrebbe essere anche salutare”. Gli ultimi mesi sono stati contraddittori. Se durante i quindici mesi di pandemia si è sviluppato il cosiddetto “Football Light”, ossia un progressivo distacco del tifoso dalla propria squadra del cuore, la vicenda della Super Lega è diventata un defibrillatore buono a rianimare questo legame. “Il modo in cui è naufragata quell’idea ci ha messo in salvo da un ulteriore accentramento di poteri e di ricchezze nelle mani di pochi club – dice Bruno – anzi, ci ha dimostrato che se si vuole salvaguardare un po’ di interesse da parte del popolo, ma anche di consumo, bisogna rallentare, non imboccare quella via. E in questo senso le proteste, soprattutto in Inghilterra, sono state fondamentali. Anche se molto probabilmente si trattava di minoranze attive, quelle tifoserie in rivolta che hanno abbandonato pubblicamente la squadra, che hanno detto che il loro club era morto con tanto di “Rest in peace”, hanno dimostrato che questo percorso non era condiviso perché tagliava alle radici l’idea di un’epica, di una sfida fra Davide contro Golia. E il calcio è lo sport che si presta maggiormente a questa idea, a questo tipo di storie”.
I tifosi come attori principali di questo sport, come l’elemento che sorregge e che rende possibile tutto il resto. Un concetto più romantico che pratico, forse. Perché una delle grandi sfide del calcio del futuro riguarda proprio la capacità di ricucire uno strappo, di trasformarsi nuovamente in uno strumento di inclusione. A partire dal linguaggio. “Il vocabolario del pallone si è arricchito di tecnicismi – spiega il professore – e il prevalere del feticismo di un dato, una lettura statistica e non qualitativa della performance costruisce un recinto per competenti, quasi un linguaggio di tipo esoterico. E oltre alla questione economica c’è da tener conto anche delle distanza del prodotto dai suoi consumatori. Il calcio però non è un mondo così difficile da penetrare per i neofiti come magari la Formula 1. Questa è più una suggestione, un’apparenza”. Da tempo si lanciano allarmi, le campane sonano a morto. Ma davvero il calcio è a rischio estinzione, la fine dei giochi è uno scenario futuribile? “A estinguersi non sarà il calcio – spiega Bruno – ma un modo di intendere il calcio. Anzi, quello che si è istinto. Perché ognuno ha il suo calcio che si è estinto. Noi cerchiamo di tramandare i nostri ricordi e la nostra nostalgia, da 90° Minuto in poi. Ma stiamo vivendo una fase diversa. Il calcio è un pezzo del sistema industriale, un business che muove miliardi, una fetta di economia. E come fetta di economia andrà avanti. Avrà bisogno di utenti e spettatori. Non credo che siano così stupidi da ucciderlo. Saremmo ingenui a pensare che la Super Lega sia finita solo per la contrarietà dei tifosi, è naufragata anche perché un pezzo di quel settore di business sapeva che non poteva far finire la domanda“. Si va avanti, dunque. Verso una nuova era ancora tutta da scoprire.