Diciotto anni esatti dopo l’apertura dei cantieri si scopre che l’esborso totale dello Stato per il Sistema Mose non sarà di 5 miliardi 493 milioni di euro, come indicato dal prezzo bloccato ancora alcuni anni fa, per il semplice motivo che il Consorzio Venezia Nuova ha già ricevuto 7 miliardi 268 milioni di euro. A tanto assommano gli acconti pagati dal Provveditorato alle Opere Pubbliche del Triveneto (e l’ex Magistrato alle Acque) per gli stati di avanzamento, sulla base delle fatture emesse. Il dato emerge dalla relazione che il commissario liquidatore, il commercialista veneziano Massimo Miani, ha allegato alla richiesta depositata in Tribunale per ottenere il nulla osta al piano di ristrutturazione del debito. E’ in quelle pagine che viene ventilata, ufficialmente, la parola fallimento, come rischio concreto per il Consorzio, gravato da debiti e senza soldi in cassa, mentre i cantieri si sono fermati.

Il destino del Mose adesso – all’incrocio tra politica e tecnica contabile – passa per il palazzo di giustizia di Venezia e per il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile. Mentre l’udienza per la procedura relativa all’accordo sul debito è slittata al 10 giugno, l’annunciata riunione del Cipess entro fine maggio non è ancora stata calendarizzata. Eppure il ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile è sceso in campo annunciando di essere pronto a sbloccare il “tesoretto” del Mose, ovvero “i risparmi per 538 milioni di euro, derivanti da minori oneri finanziari sui mutui contratti per la realizzazione del sistema”, che “potranno essere utilizzati per il completamento dell’opera e la sua messa in esercizio, per gli interventi paesaggistici e ambientali e per le attività di manutenzione”. Si tratta di soldi già stanziati nel passato, ma che non sono stati spesi grazie alla riduzione dei tassi sui prestiti e sono quindi, almeno virtualmente, disponibili.

Cosa accadrebbe all’opera di salvaguardia dalle acque alte – infinita, costosissima e in passato lastricata di tangenti – se per davvero i libri finissero in Tribunale? La domanda non è banale. Un colossale colpo di spugna cancellerebbe inadempienze ed errori progettuali per centinaia di milioni. Sette mesi dopo la nomina, il liquidatore ha presentato un ricorso ex articolo 182 bis della Legge Fallimentare che prevede, in presenza di una situazione di “crisi”, la richiesta di “omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori”. La proposta inviata ai creditori riguarda il pagamento solo del 30 per cento di quello che avanzano. La lettera è stata inviata dallo studio dell’avvocato Stefano Ambrosini, un professionista che fu presidente di Finpiemonte, la finanziaria della Regione Piemonte, incarico da cui si dimise nel 2019. Replica delle imprese medio-piccole consorziate che aspettano 21 milioni di euro: “Se non ci pagano, falliremo tutte”.

Una mossa drastica, che Miani spiega così ai giudici: “Le condizioni del Consorzio si sono tradotte in vero e proprio stato di crisi tra la fine di marzo e l’inizio di aprile 2021 quando il Ministero delle Infrastrutture ha comunicato l’impossibilità di utilizzare parte dei fondi distribuiti al Mose per il ripianamento dell’esposizione debitoria del Consorzio pena la verosimile violazione del divieto unionale di aiuti di Stato”. L’istanza vuole “salvaguardare l’integrità patrimonio del Consorzio scongiurando alla radice il rischio che alcuni creditori decidano di avviare in sede esecutiva attività di realizzazione delle rispettive pretese”.

Le nude cifre disegnano una situazione drammatica, anche se alla fine si scopre che il creditore principale è lo Stato, attraverso il Provveditorato, mentre le imprese hanno cifre minori. Avanza, infatti, 145 milioni di euro, dovuti in gran parte a “lavori mal eseguiti o con carenze progettuali”. Lo stesso Miani avverte che si è “in attesa della definitiva individuazione delle responsabilità delle imprese/progettisti”. Di questa cifra, 45 milioni sono relativi a interventi già svolti entro la fine del 2020 (33 milioni già fatturati), mentre altri 71,9 milioni riguardano la “produzione a finire”. Quindi lavori non completati. Ci sono debiti verso le aziende consorziate per una ventina di milioni e per quelle non consorziate (compresa la voce “altri”) per 45 milioni di euro. E’ così che si arriva a superare i 200 milioni di debiti, considerando che il Consorzio vanta crediti verso le imprese consorziate per 32,7 milioni, oltre a somme enormi verso le imprese già coinvolte nello scandalo delle tangenti, che però sono sotto procedura concorsuale. Sarà difficile recuperarle, scrive il liquidatore, che quindi non calcola nemmeno una somma virtuale di 206 milioni di euro.

Intanto i cantieri sono fermi e il cronoprogramma fa slittare al 31 dicembre 2021 la data di fine lavori. “La proposta di pagare solo il 30 per cento ai creditori è gravissima: sessanta piccole imprese con 1.500 dipendenti, rischiano di chiudere, vedendosi scaricare addosso debiti che non hanno creato loro e che riguardano solo il 10 per cento dell’ammontare totale dei debiti” denuncia la senatrice Orietta Vanin dei Cinquestelle. “Chi risponderà degli errori commessi nel passato in caso di fallimento? Chi pagherà per le scelte sbagliate di materiali e forniture? E’ questo che si vuole? Che nessuno paghi?”. L’onorevole Nicola Pellicani del Pd: “Tutti credono che il Mose sia già operativo, ma non è così. A Venezia è tutto fermo e si rischia il fallimento del Consorzio, con una figuraccia di dimensioni mondiali e con il rischio di perdere centinaia di posti di lavoro. Non deve succedere e non succederà solo se tutti faranno la loro parte a partire dal governo, iniziando con lo sblocco delle risorse ferme al Cipe”.

Si tratta del “tesoretto” di oltre 500 milioni di euro, ma che non potrà essere usato come un aiuto di Stato per salvare il Consorzio. Intanto, sui vertici che gestiscono questa partita in modo conflittuale, spirano venti di polemica. Ad esempio nell’elenco dei consulenti del Commissario sblocca-cantieri Elisabetta Spitz (nominata due anni fa dopo “l’acqua altissima”), c’è l’ingegnere Francesco Ossola, uno degli amministratori straordinari nominati per iniziativa dell’Autorità anticorruzione dopo lo scandalo delle tangenti del 2014. Viene pagato 1.100 euro al giorno, fino a un massimo di 150 mila euro all’anno. Intervistata da un giornalista di “Report”, la trasmissione di Rai Tre, l’architetto Spitz ha replicato: “Ritengo l’ingegner Ossola un tecnico di altissimo livello, necessario per garantire il completamento delle opere. L’entità della prestazione professionale mi sembra inferiore a quella che il Provveditorato alle Opere Pubbliche paga ai suoi consulenti”. Il provveditore Cinzia Zincone replica: “Al netto dei rimborsi spese, i consulenti negli ultimi anni hanno preso al massimo dai 5 ai 15 mila euro”.

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