Firenze. A darne notizia è stato il New York Times che ha intervistato il team tutto al femminile - formato da Monica Bietti (ex direttrice delle Cappelle Medicee), Daniela Manna e Marina Vincenti (restauratrici) e Anna Rosa Sprocati (ricercatrice dell’Enea) - protagonista dell’impresa
A mali estremi, estremi rimedi. A compimento di ben otto anni di interventi all’interno della Sagrestia Nuova di San Lorenzo – parte integrante del Museo delle Cappelle Medicee di Firenze -, per ripulire le arche dei Duchi Medici scolpite da Michelangelo Buonarroti tra il 1520 e il 1534 è stato deciso di ricorrere a una serie di batteri, microrganismi capaci di “cibarsi” di determinante sostanze che nei secoli si sono sedimentate sul marmo. A darne notizia è stato il New York Times che ha intervistato il team tutto al femminile – formato da Monica Bietti (ex direttrice delle Cappelle Medicee), Daniela Manna e Marina Vincenti (restauratrici) e Anna Rosa Sprocati (ricercatrice dell’Enea), protagonista dell’impresa, Donata Magrini (ricercatrice CNR) e Paola D’Agostino (Direttore Musei del Bargello).
Più nel dettaglio, per ciascuna delle sculture sono stati utilizzati diversi tipi di batteri secondo le necessità: per il Giorno e la Notte che campeggiano sul cassone contenente i resti di Giuliano de’ Medici duca di Nemours, sono stati impiegati sia lo Pseudomonas stutzeri CONC11, batterio ricavato dai rifiuti di una conceria vicino a Napoli, sia lo Rhodococcus sp. ZCONT, che arrivava dai terreni contaminati da gasolio a Caserta ed è servito a pulire i residui di stampi da colata, colla e olio dalle orecchie. Sembra fantascienza, ma è solo scienza applicata ai beni culturali. Quindi per i volti della Notte e della statua del Duca Giuliano, i restauratori sono ricorsi a una sorta di maschera facciale di micro-gel di gomma xantana (un polisaccaride impiegato come additivo alimentare), comune nei dentifrici e nei prodotti di bellezza, ricavato – guarda caso – dallo Xanthomonas campestris, un altro batterio.
Tuttavia il risultato più eclatante – poiché visivamente apprezzabile – lo si è ottenuto con un batterio chiamato Serratia ficaria SH7, ottenuto dal suolo contaminato da metalli pesanti in un sito minerario in Sardegna. A questo microorganismo infatti è stato affidato il compito di ripulire l’arca marmorea contenente i resti di una coppia di Duchi Medici – Lorenzo duca di Urbino (padre) e Alessandro duca di Firenze (figlio). Lorenzo morì nel 1419, ma almeno fino al 1534 il suo feretro fu sistemato altrove nel complesso laurenziano. Suo figlio Alessandro – primo Duca di Firenze dopo il ritorno dei Medici al potere che seguì l’assedio del 1530-1531 e la fine dell’esperienza repubblicana – il 6 gennaio 1537 fu assassinato da Lorenzino, un lontano parente, e nel giro di poche settimane il suo corpo fu depositato nell’arca dove già si trovavano i resti di suo padre.
Il problema fu che, con tutta probabilità, il corpo di Alessandro non fu eviscerato e preparato per l’imbalsamazione, come invece accadeva sovente per personaggi di rilievo. Questo si tradusse in una lunga, inarrestabile penetrazione delle sostanze di putrefazione del cadavere all’interno del materiale lapideo. La macchie brune sul fondo dell’arca erano già visibili nel 1552 e lo erano fino a qualche mese fa, quando sembravano ormai destinate all’eternità. Ma poi è intervenuto il batterio Serratia ficaria SH7 che di quei fosfati a chiazze si è “cibato”, facendo sparire resti di Alessandro e restituendo un colore più uniforme al marmo del sepolcro ducale.
La prossima settimana saranno presentati ufficialmente i risultati di questo straordinario lavoro, unitamente alle numerose scoperte emerse durante le tante giornate di restauro e di studio – se pur interrotte per lunghi periodi dai vari lockdown che si sono succeduti a causa dell’emergenza sanitaria – e che riguardano le tecniche utilizzate da Michelangelo per rendere più luminose le superfici del marmo o la scoperta della punta di uno scalpello ancora conficcata nel materiale lapideo. Con la speranza, infine, che tutto quanto emerso – dai batteri alle tecniche, dalla storia della Sagrestia all’”infinita bellezza” del luogo – siano presto pubblicati in un libro-testimonianza di questa nuova impresa ai confini della realtà, apripista di un nuovo, più stretto e più soddisfacente rapporto tra scienza e arte.