Come Procuratore di Palermo ho seguito molto da vicino l’attività della Polizia che ha portato alla cattura di Giovanni Brusca e i suoi primi interrogatori. Voglio però riflettere in generale sul fenomeno e sulla legge dei cosiddetti “pentiti”.

Essendo fondato su vincoli associativi segreti, il gruppo mafioso può essere paragonato ad una roccia, rispetto alla quale le indagini senza “pentiti” appaiono come un semplice scalpello. Se non si rompe, lo scalpello riesce a scheggiare la superfice esterna della roccia ma non a penetrarci dentro. Invece, le indagini collegate alle ricostruzioni fornite dai collaboratori di giustizia riescono a trasformare lo scalpello in una sorta di carica esplosiva. Una carica posta all’interno della roccia, che la spacca mettendone a nudo la parte più segreta. Insomma, grazie all’apporto dei collaboratori di giustizia i risultati delle indagini possono essere disastrosi per la roccia, cioè per i mafiosi. E questo dato è quello che più dovrebbe interessare nel contesto della lotta alla mafia.

Si è detto tante volte che i mafiosi “pentiti” sono figure eticamente negative. Ma attenzione: non sono di certo personaggi negativi perché hanno parlato. Se ragionassimo così, applicheremmo anche noi il codice dell’omertà dei boss mafiosi. Un criterio di lettura che non aiuta a capire.

Si dice ancora: non si possono accettare coloro che sono marchiati dall’indelebile “peccato originale” di essere stati mafiosi. Mafiosi, è vero, ma proprio per questo preziosi (dal punto di vista investigativo-giudiziario): se non fossero stati mafiosi non avrebbero informazioni sulla mafia da darci, non conoscerebbero i segreti che servono per contrastarla incisivamente. Uno Stato che voglia davvero fare la lotta alla mafia sa bene che i mafiosi sono utili ma devono avere un interesse a collaborare. Perciò vanno incentivati a farlo. Con una apposita legge, senza sotterfugi. Se tutto funziona secondo le regole (in particolare quella che senza adeguati riscontri le loro parole non sono prove) il contributo dei collaboratori di giustizia è semplicemente insostituibile.

Non sono parole retoriche ma fatti concreti. Ricordiamo il maxiprocesso istruito dal pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fondato principalmente proprio sulla collaborazione di vari pentiti: da Buscetta a Contorno, da Calderone a Marino-Mannoia. Buscetta in particolare è l’uomo che ha consegnato a Falcone la “password” dei segreti di Cosa nostra, necessaria per comprenderne l’organizzazione interna, le gerarchie, le lotte intestine.

Per la lotta antimafia, più che una svolta l’inizio di una nuova era. La fine della storica impunità di Cosa nostra che fino ad allora si negava addirittura che esistesse come organizzazione. Al punto che un procuratore generale della Cassazione (Tito Parlatore) invece di sostenere l’accusa contro gli imputati dell’omicidio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, arrivò a dire che “gli imputati non sono mafiosi, bensì portatori di una mentalità mafiosa. La mafia è materia per conferenze e come tutti i problemi sociali esula dalle funzioni della corte di Cassazione”. Se ci fossero già stati i pentiti con le loro chiavi di lettura, Parlatore (1965) avrebbe potuto ragionare in maniera tutt’affatto diversa.

In sintesi e per concludere, va detto che i “pentiti” sono certamente un rimedio da maneggiare con cura, per i possibili e non pochi effetti collaterali pericolosi. Ma sono un rimedio che riesce ad aggredire efficacemente e direttamente la malattia, cioè lo sviluppo delle organizzazioni criminali segrete. Perciò un rimedio decisivo e irrinunziabile – secondo la logica e l’esperienza – per tutti coloro che abbiano a cuore la salute e le sorti della nostra democrazia.

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