Una pagina su Repubblica, un'altra sulla Stampa, mezza sul Corriere della Sera: una difesa per ribadire i concetti già espressi ieri subito dopo la sentenza e, soprattutto, per attaccare la giustizia italiana con parole durissime
La narrazione di Nichi Vendola a poche ore dalla condanna per concussione aggravata in concorso nell’ambito del processo Ilva arriva sui più importanti giornali italiani: una pagina su Repubblica, un’altra sulla Stampa, mezza sul Corriere della Sera. Una difesa a stampa unificata per ribadire i concetti già espressi ieri subito dopo la sentenza e, soprattutto, per attaccare la giustizia italiana con parole durissime. Dopo l’autoassoluzione, infatti, l’ex governatore pugliese collega la sua vicenda giudiziaria allo stato in cui versa la magistratura, accusando anche il silenzio della sinistra sul tema: “La giustizia è malata, la sua amministrazione è sempre più spettacolarizzata, la cultura delle investigazioni è in caduta libera, il circo giudiziario sta uccidendo il sentimento della giustizia – ha detto l’ex leader di Sel al Corriere della Sera – Questo è un problema perla qualità della democrazia. E la sinistra non può non prendere di petto questa questione”. Per tornare al tema dell’intervista e restringere l’analisi di Vendola, è addirittura il Corriere a chiedergli di cosa è accusato, in un capovolgimento dei ruoli. Il risultato? Campo libero per l’ex governatore: “Io sono accusato di avere, con minaccia ‘implicita’, minacciato il direttore dell’Arpa affinché ammorbidisse la sua posizione su Ilva. Ma Arpa non ha mai ammorbidito un fico secco – prosegue nell’intervista – E non c ‘è alcuna prova di questa mia minaccia. L’unica cosa implicita è la volontà di colpire e sporcare una storia politica limpida”.
Il 17 maggio, però, nell’ultima udienza del processo l’ex direttore dell’Arpa Giorgio Assennato (anche lui condannato, a due anni) aveva raccontato una storia diversa: “Non ho mai subito pressioni da Vendola, ma nel 2010 la Regione Puglia scelse di non seguire le indicazioni di Arpa contro Ilva”. Assennato, nella fattispecie, ha ricostruito come, il 15 luglio 2010, all’insaputa di tutti e anche sua, i vertici regionali incontrarono la proprietà dell’Ilva, in quel periodo travolta dall’emergenza sul benzo(a)pirene. Assennato ha spiegato che dopo quell’incontro l’amministrazione Vendola con l’allora assessore all’ambiente Lorenzo Nicastro avrebbe svuotato “di senso le nostre relazioni”. Cosa significa? Che la Regione decise di non dare seguito alla proposta di Arpa di ridurre la produzione dell’Ilva nei giorni di vento, quando le polveri e le emissioni colpiscono in maniera più massiccia la città. E così avrebbe perso l’occasione di riscrivere, da quel momento, la gestione della crisi ambientale a Taranto. Quella mattina di luglio, ai cronisti, Assennato appare dimesso: “Ero rassegnato non per le inesistenti pressioni, ma perché vedevo fallire il mio programma, da medico di sanità pubblica, di risanamento della qualità dell’aria dei Tamburi”. E per quella stessa ragione per cui Assennato era abbattuto, l’assessore Nicastro, come emerge da articoli finiti agli atti del processo, era invece trionfante. Il 17 maggio scorso, quindi, dinanzi alla Corte d’assise per ricordare quella scelta della giunta Vendola, Assennato ha fatto un esempio forte e attuale: “È come se l’autorità politica, avendo un vaccino in mano rinunciasse a usare il vaccino per contenere un’epidemia”. Secondo Assennato, insomma, la Regione guidata allora da Vendola, avrebbe potuto attuare una soluzione efficace, ma scelse di non farlo.
Una ricostruzione, quella di Assennato, che non viene citata dall’ex leader di Sel: “Francamente nulla di ciò che mi è accaduto a Taranto potevo mai aspettarmi. Non di essere indagato, non di essere rinviato a giudizio con un’accusa grottesca, non di essere condannato senza alcuna prova. Sono ferito da questa offesa alla verità e alla mia storia. Mi ribello a questa giustizia che calpesta la verità”. E ancora: “Quelli che hanno venduto l’ambiente di Taranto e non solo, stanno godendo, sono finito in una tagliola giudiziaria” ha aggiunto a Repubblica, sottolineando – al Corriere – che “chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza lo straccio di una prova”. Poi la rivendicazione delle ‘sue’ politiche ambientaliste, in barba alle parole di Assennato: “Il mio rovello è sempre stato quello di coniugare il diritto alla salute e il diritto al lavoro. Ho governato imponendo una svolta ambientalista all’intera legislazione in Puglia, dall’urbanistica al paesaggio, dalle bonifiche all’energia rinnovabile. E su Ilva abbiamo noi aperto la questione delle malattie, dei morti, dell’inquinamento, dopo decenni di totale indifferenza istituzionale”. “Un secolo di inquinamento industriale, oltre mezzo secolo di siderurgia a Taranto sono finite addosso alle mie spalle, cioè della prima classe dirigente che non ha fatto finta di niente, che ha agito contro i veleni. Le uniche leggi regionali in Italia contro la diossina e il beonzoapirene le abbiamo fatte in Puglia. Noi abbiamo scoperchiato la pentola” ha detto ancora Vendola al quotidiano romano. Che gli ha fatto notare come in passato lui stesso abbia sottolineato che le sentenze si rispettano: “Le sentenze ingiuste si appellano. Questa non è solo ingiusta, ma è una barbarie”.