Sono 26 le condanne inflitte dalla Corte d’assise di Taranto al termine del processo di primo grado sull’ex Ilva. Le pene superano di poco i 280 anni di carcere. Un consuntivo nettamente più basso rispetto alle richieste della procura, che aveva chiesto 35 condanne per quasi 4 secoli di galera. La Corte, presieduta dal giudice Stefania D’Errico e a latere Fulvia Misserini, ha infatti ritenuto che alcune accuse fossero infondate, altre coperte da prescrizione, ma in altri casi ha emesso pene leggermente più alte di quelle richieste. Da quali fatti e da quali circostanze è nato il processo “Ambiente svenduto” del quale si è concluso ieri il primo grado? Su cosa si è basata la sentenza, quali i ruoli dei politici, quali accuse sono cadute e quali prescritte perché è passato troppo tempo?
ASSOCIAZIONE A DELINQUERE – Al termine del processo la Corte ha dato ragione alla procura ionica confermando l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Per l’accusa dell’associazione hanno fatto parte Nicola e Fabio Riva, condannati rispettivamente a 20 e 22 anni di carcere, Luigi Capogrosso ex direttore della fabbrica condannato a 21 anni, l’ex dirigente delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà che dovrà scontare 21 anni e 6 mesi di carcere, l’avvocato del Gruppo Riva Francesco Perli condannato a 5 anni, e poi alcuni fiduciari che componevano il cosiddetto Governo Ombra: 18 anni e 6 mesi per Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino, 17 anni e 6 mesi per Enrico Bessone. L’obiettivo dell’associazione era quello di “individuare le problematiche che non avrebbero consentito l’emissione di provvedimenti autorizzativi nei confronti dello stabilimento Ilva” e concordando le possibili soluzioni con esponenti del mondo politico, istituzionale, della stampa, delle organizzazioni sindacali, del settore scientifico. Tenendo l’Ilva al riparo da provvedimenti sgraditi, i Riva si sarebbero garantiti alti livelli di produzione con minimi interventi economici per l’ammodernamento della fabbrica. E così facendo avrebbero prodotto acciaio con la piena consapevolezza della massiva attività di sversamento nell’aria di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale. Per l’accusa infatti diffondendo sostanze come idrocarburi policiclici aromatici, benzo(a)pirene, diossine, metalli e altre polveri nocive, hanno determinato “eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino il siderurgico” oltre che l’avvelenamento da diossina di 2.271 capi di bestiame e di tonnellate di cozze prodotte nel Mar Piccolo di Taranto.
MORTI SUL LAVORO – Sono sette le condanne inflitte per gli incidenti mortali nei quali persero la vita due operai dell’Ilva, Claudio Marsella e Francesco Zaccaria. Il primo è quello di Claudio Marsella, schiacciato da una locomotrice nel reparto “movimento ferroviario” dell’Ilva il 30 ottobre 2012: in primo grado sono stati dichiarati colpevoli l’ex direttore dello stabilimento Adolfo Buffo, il dirigente Antonio Colucci (4 anni di reclusione per entrambi) e il capo reparto Mof Cosimo Giovinazzi (2 anni con pena sospesa). Claudio Marsella quel giorno era impegnato nell’operazione di aggancio dei due rotabili – entrambi dotati di ganci per l’accoppiamento automatico dei mezzi – e aveva posizionato Il comando del locomotore in folle per farlo procedere lentamente sino all’aggancio, ma né il locomotore né il convoglio erano in realtà immobilizzati perché privi dei dispositivi di bloccaggio delle ruote (cosiddette staffe ferma-carro): una negligenza che costò la vita al giovane operaio. Francesco Zaccaria morì meno di un mese dopo Marsella: si trovava all’interno di una gru colpita dal tornado che si scatenò su Taranto e Statte il 28 novembre 2012: quella struttura, però, per l’accusa era “in pessimo stato di conservazione” ed era priva del “fermo anti uragano” e così precipitò da 60 metri trascinando in mare il giovane. Per omicidio colposo sono stati condannati gli stessi Buffo e Colucci, a cui si sono aggiunti il capo reparto Giuseppe Dinoi (2 anni e 6 mesi) e l’ispettore tecnico dell’Arpa Puglia, Giovanni Raffaelli, accusato in particolare di non aver effettuato un’idonea “verifica sull’integrità” della gru e condannato a 2 anni con pena sospesa.
LA POLITICA – Oltre alla pena di 3 anni e 6 mesi per l’ex presidente della Regione Nichi Vendola, la Corte ha condannato anche l’ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido e il suo assessore all’Ambiente Michele Conserva: 3 anni di reclusione per entrambi per aver fatto pressioni sui dirigenti affinché concedessero l’autorizzazione integrata ambientale alla discarica interna dell’Ilva. Dichiarata la prescrizione invece nei confronti di alcuni esponenti politici accusati di favoreggiamento. Il deputato Nicola Fratoianni, all’epoca dei fatti assessore regionale, era accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola e la procura aveva chiesto la condanna a 1 anno di reclusione. L’attuale assessore all’agricoltura Donato Pentassuglia era invece accusato di favoreggiamento nei confronti di Girolamo Archinà e la procura aveva chiesto la condanna a 8 mesi di reclusione: la corte però ha dichiarato l’intervenuta prescrizione. È stato invece assolto dall’accusa di omissione in atti d’ufficio l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano: l’accusa era di non aver adottato alcun provvedimento, nella sua qualità di massima autorità sanitaria del territorio, contro Ilva nonostante fosse pienamente a conoscenza delle “criticità ambientali”. La Procura aveva ritenuto il reato già prescritto, ma la corte lo ha assolto nel merito perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
LA CORRUZIONE PRESCRITTA – È trascorso troppo tempo dal 26 marzo 2010 anche per stabilire se quel giorno Lorenzo Liberti, ex consulente della Procura di Taranto, sia stato corrotto con una mazzetta da 10mila euro consegnata dal dirigente Ilva Girolamo Archinà per ammorbidire una perizia sulle emissioni industriali richiesta dalla procura ionica. La Corte d’assise ha infatti stabilito il non luogo a procedere nei confronti degli imputati accusati di corruzione in atti giudiziari, ma ha comunque condannato a 15 anni Liberti per il reato di disastro ambientale e avvelenamento di sostanze alimentari: per la corte “confezionando” la consulenza nella quale avrebbe scagionato l’Ilva, ha di fatto impedito alla Procura di Taranto di intervenire tempestivamente e favorito così i danni all’ambiente e agli animali.