Cultura

‘La guerra di Mussolini’, ovvero le malefatte del fascismo tra disastri e ingratitudine

Nell’ultimo mese sono stati pubblicati tre libri sul fascismo e le sue malefatte: il primo – Solo, di Riccardo Nencini, segretario del Partito Socialista – è la storia di Giacomo Matteotti fino alla sua uccisione per ordine di Mussolini, con particolari agghiaccianti sulle torture patite prima della morte; il secondo, di Francesco Filippi, ha un titolo che funge anche da indice (Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo) ed è molto utile per “smontare” alcuni luoghi comuni del tipo “si stava meglio quando si stava peggio”; il terzo, degli storici Antonio Carioti e Paolo Rastelli – con prefazione di Marcello Flores – si intitola La guerra di Mussolini; sottotitolo, “La disfatta dell’Italia fascista”.

Avendo già recensito i primi due libri, provo a dare il succo di questa opera molto ponderosa (470 pagine), che offre un quadro esauriente delle vicende belliche del fascismo e della sua disfatta finale.

Malgrado l’ammirazione di Hitler per il Duce, che lo ha preceduto nella presa del potere nel suo paese, Mussolini in sostanza è succube di Hitler, al punto da seguirlo nella avventura che più di ogni altra segnerà la sconfitta e il crollo del regime nazista: l’aggressione alla Russia, con il suo tragico finale. Del resto, il Patto d’acciaio, sottoscritto a Berlino da Ciano il 22 maggio del 1939, vincola l’Italia ad appoggiare senza riserve e fino in fondo la linea espansionistica del Terzo Reich.

Resta un impegno verbale l’accordo sulla opportunità di evitare una guerra a breve termine contro Francia e Inghilterra, per la quale l’Italia è del tutto impreparata (il “memoriale Cavallero”, che lo stesso generale consegna al Fuhrer, dice chiaramente che all’Italia servono tre anni per essere pronta alla guerra). Infatti, se da un lato alcune armi sono valide – come i mortai, le mitragliatrici pesanti e il fucile Carcano (uno di loro, costruito a Terni nel 1940, fu usato da Oswald per uccidere Kennedy a Dallas) – era molto carente il parco delle artiglierie, mancavano le cucine da campo ed erano di pessima qualità le uniformi e i famosi “scarponcelli chiodati”, come si vide in Russia dove essi facilitarono il congelamento dei piedi di migliaia di soldati perché i chiodi, a contatto con il terreno gelato, erano ottimi conduttori del freddo.

Ciò malgrado, Mussolini è rafforzato nella sua cinica e dichiarata convinzione che “basteranno alcune migliaia di morti per potersi sedere da vincitore al tavolo della pace” dalla fulminea velocità con cui Hitler inizia “la sua guerra”, occupando ad aprile Danimarca e Norvegia e a maggio Belgio, Olanda e Francia. Ma non aspettandosi, forse, la strenua ed eroica resistenza dell’Inghilterra agli spietati bombardamenti e ai tentativi di invasione.

Il libro ha un’ampia parte sulle imprese del fascismo in Africa, riconoscendo qualche successo delle truppe italiane ma sottolineando che alla fine l’intervento decisivo per togliere i nostri soldati dai guai fu quello di Rommel, vera “volpe del deserto”. L’Africa, in quegli anni, diviene il terreno di battaglia degli eserciti dei vari Paesi che via via entrano in guerra nei due schieramenti contrapposti. Così, ad esempio, ai primi di gennaio del 1941 i militari australiani attaccano la roccaforte di Bardia, in Libia, e catturano 45mila soldati del Duce. E fanno impressione alcuni dati che rendono l’idea dell’immane sforzo bellico compiuto da tutti i Paesi coinvolti. Uno per tutti: per affrontare gli assalti di Rommel, il comando inglese ha creato una barriera lunga 80 chilometri che si spinge dalla costa fino al caposaldo di Bir Hakeim, con campi minati con circa mezzo milione di ordigni.

Carioti e Rastelli sono spietati sul naufragio delle “imprese” del fascismo in Albania e in Grecia, aggredite prima ancora che Hitler scendesse in guerra: una tale catastrofe da costringere il Fuhrer ad intervenire per soccorrere le nostre truppe. E dire che lo slogan del Duce era stato “Spezzeremo le reni alla Grecia”, uguagliato soltanto – nella sua grottesca esaltazione – dal celebre “li inchioderemo sul bagnasciuga”. Ho scoperto per caso che Mussolini aggiunse questa altra affermazione da bullo: “Se per avventura dovessero penetrare, bisogna che le forze di riserva, che ci sono, si precipitino sugli sbarcati, annientandoli sino all’ultimo uomo. Di modo che si possa dire che essi hanno occupato un lembo della nostra patria, ma l’hanno occupato rimanendo per sempre in una posizione orizzontale, non verticale”.

Benché Hitler sia corso in più occasioni a soccorrere gli italiani, Mussolini si dimostra anche ingrato nella sostanza visto che nel luglio del 1942 Ciano scrive nei suoi diari che egli appare sempre più antitedesco, al punto di dire che “il popolo italiano si domanda ormai quale fra i due padroni – l’inglese o il tedesco – sia da preferire”.

Drammatiche le pagine sulla disfatta e la tragica ritirata dei soldati italiani dell’Armir in Russia. E interessanti le notizie sulle conseguenze della folle impresa anche sulle condizioni degli italiani rimasti in patria. L’impegno costosissimo in un Paese lontano come la Russia rende sempre più precarie le condizioni economiche nel nostro Paese. Dopo il razionamento della pasta, del riso e della farina, introdotto alla fine del 1940, arriva quello del pane: 200 grammi giornalieri a persona, con una tessera alimentare che garantisce meno di mille calorie quotidiane. E tra la gente deperita, che tira la cinghia, gira la battuta per cui l’ultimo buco della cinghia è “il foro Mussolini” (l’attuale “Foro Italico”).