Il processo ha dato risposte sul periodo in cui l'impianto era gestito dai Riva. Ma dopo il 2012? Da Monti a Conte, passando per Letta, Renzi e Gentiloni, tutti hanno avuto tra le mani la bomba sociale e ambientale procedendo a colpi di decreto. Ma i dati raccontano che nella città pugliese si muore ancora di più che in altre zone d’Italia
Carcere per l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. Carcere per l’ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido. La sentenza del processo “Ambiente svenduto” sul disastro ambientale e sanitario di Taranto ha condannato una parte della politica che con la famiglia Riva ha avuto a che fare per quasi vent’anni, fino al 2012. La pronuncia del tribunale penale, però, fotografa il passato: cristallizza il quadro di eventuali responsabilità penali, ancora da definire, ma non dice niente del segmento di storia che dopo il 2012 e fino al 2021 ha visto la politica continuare a occuparsi dell’ex Ilva e di Taranto, ma senza risultati particolarmente apprezzabili.
La modalità è nota a tutti: la decretazione d’urgenza. Ben sei governi, da Monti ai due guidati da Conte passando per Letta, Renzi e Gentiloni, hanno avuto tra le mani la bomba sociale e ambientale che contrappone il diritto alla salute e il diritto al lavoro. Tutti, a colpi di decreto, hanno provato a cercare un bilanciamento, ma a distanza di quasi un decennio, i dati raccontano che a Taranto si muore ancora di più che in altre zone d’Italia. I governi hanno provato di tutto: un garante, un amministratore straordinario, mezza dozzina di commissari, l’affitto della fabbrica, la cogestione, ma l’acciaieria più grande e più velenosa d’Europa è ancora lì, ricordo immobile di una battaglia che – dice la storia degli ultimi anni – non può essere vinta con i decreti “salva Ilva”.
Tutto è iniziato il 26 luglio 2012, giorno in cui il gip Patrizia Todisco sequestra senza facoltà d’uso gli impianti dell’area a caldo e l’Italia scopre che a Taranto si muore di più a causa dei fumi e delle polveri che quotidianamente si diffondono dallo stabilimento verso la città e in particolarmente verso il quartiere Tamburi che dista solo pochi metri dalle montagne di minerale di ferro e carbone stoccate a cielo aperto. A Taranto, invece, abitanti e operai lo sapevano da tempo: prima che i risultati delle maxi perizie mettessero tutto nero su bianco, gli operai erano consapevoli di dover scegliere tra la possibilità di ammalarsi e la certezza matematica di non avere uno stipendio alla fine del mese. In riva allo Ionio il nodo salute-lavoro era come un segreto noto a tutti, ma di cui nessuno parlava. Quando nel 2012 il pool di inquirenti guidati da Franco Sebastio avvia il blocco degli impianti il governo dei tecnici di Mario Monti corre ai ripari: il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, ferma con il primo decreto l’azione dei magistrati varando un provvedimento che consente all’Ilva di produrre per 36 mesi in attesa di adeguare gli impianti alle prescrizioni della nuova Autorizzazione integrata ambientale. Per vigilare sul processo di ammodernamento l’esecutivo del senatore a vita nomina un “garante per l’Ilva”, ma dura solo qualche mese.
Il governo delle larghe intese, formato dal centrosinistra con un pezzo di centrodestra, guidato da Enrico Letta sceglie come commissario straordinario Enrico Bondi che fino al giorno prima della nomina era stato scelto dalla famiglia Riva, proprietaria della fabbrica, come amministratore delegato dell’Ilva. Ad agosto 2013 nel decreto legge per la Terra dei Fuochi, l’esecutivo concede all’Ilva l’autorizzazione a smaltire i rifiuti della produzione nelle discariche interne allo stabilimento. È un regalo che consente all’azienda ormai gestita dallo Stato di risparmiare milioni di euro e per il quale la magistratura aveva da poco arrestato il presidente della Provincia, Florido.
A Palazzo Chigi, intanto, arriva Matteo Renzi che silura Bondi e nomina tre commissari straordinari Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba. Non solo. Renzi con un ulteriore provvedimento allunga i tempi di adeguamento all’Aia: l’Ilva, quindi, può continuare a produrre e quindi a inquinare senza che la Procura possa intervenire a difesa dei cittadini. A giugno 2015, nell’Altoforno 2 della fabbrica muore ucciso da un getto di gas l’operaio 35enne Alessandro Morricella: scatta il sequestro del tribunale perché l’impianto è privo dei dispositivi di sicurezza: non c’entrano le emissioni, c’entrano le condizioni di sicurezza dei lavoratori, ma per scongiurare lo spettro del blocco della produzione, Roma interviene ancora e dispone che gli impianti potranno essere utilizzati anche se non sono sicuri. E i sindacati? Clamorosamente in silenzio. Renzi, inoltre, concede l’immunità penale ai commissari, ai loro delegati e persino ai nuovi acquirenti.
Le cordate interessate sono due: la prima è guidata dalla multinazionale franco-indiana ArcelorMittal con il gruppo Marcegaglia e Banca Intesa, la seconda tiene insieme il colosso tutto indiano Jindal con Cassa Depositi e Prestiti, Arvedi e Del Vecchio, patron di Luxottica. Le offerte vengono analizzate da un team di esperti nominati dai commissari straordinari: per i tecnici il piano di Jindal è più vantaggioso, ma – con un bando di gara che privilegiava l’offerta economica alla qualità della proposta industriale – l’accordo di vendita viene concluso con Mittal. Il contratto resta segreto fino a quando dopo nuove elezioni, i 5stelle formano un nuovo governo, quello del “cambiamento”, con la Lega di Salvini. E a Taranto il Movimento ha trionfato perché “cambiamento” è la parola promessa anno dopo anno, campagna elettorale dopo campagna elettorale. Il M5s elegge cinque parlamentari grazie alle promesse di “chiusura delle fonti inquinanti, bonifica e riconversione”, ma poi sono costretti a fare un passo indietro: il contratto firmato dal Pd con Mittal lo definiscono “il delitto perfetto” e non può essere modificato. Le associazioni ambientaliste si sentono tradite. Lo stesso percorso incerto e contraddittorio dei 5 stelle si ripete sull’immunità penale: con il decreto Crescita la eliminano completamente, con il decreto Imprese la ripristinano, ma limitata ai problemi ambientali e strettamente collegata ai tempi previsti dal piano ambientale e infine, durante la conversione in legge del decreto Imprese, stralciano lo scudo penale dal testo.
A gennaio 2019, a certificare il fallimento della gestione politica dell’affare Ilva, ci pensa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che accoglie il ricorso di 180 persone e condanna l’Italia per violazione dei diritti umani poiché ha messo in pericolo la loro salute a causa delle emissioni inquinanti dell’Ilva e ha varato azioni ritenute inefficaci. La Corte censura i decreti Salva-Ilva che avevano garantito l’immunità penale e afferma che le autorità italiane hanno violato gli articoli 8 e 13 della Convenzione europea sui diritti umani. Cioè rispettivamente quelli che tutelano il rispetto della vita privata e familiare e quello che tutela il diritto di un ricorso effettivo. Nella sentenza si sottolinea che la popolazione “resta, anche oggi, senza informazioni sulle operazioni di bonifica del territorio” e si evidenzia inoltre che i cittadini non hanno avuto modo di ricorrere davanti a un giudice italiano contro l’impossibilità di ottenere misure anti-inquinamento, violando quindi il loro diritto a un ricorso effettivo. Un riferimento chiaro ai decreti scritti per permettere all’azienda di non fermare gli impianti.
Sono trascorsi due anni da quella sentenza, ma l’unica cosa che è cambiata è l’ingresso dello Stato nella gestione diretta della fabbrica accanto ad ArcelorMittal. I parchi minerali sono stati coperti, ma le polveri non hanno smesso di appestare la città. E la vita dei tarantini.