La Casa Bianca conferma lo stop alle licenze di esplorazione per le compagnie petrolifere che intendono trivellare l’area dell’Arctic National Wildlife Refuge, fino a quando non saranno resi noti nuovi dati sull’impatto ambientale delle attività esplorative. Il presidente Joe Biden mantiene la promessa fatta durante la sua prima settimana di incarico, quando aveva annunciato una revisione per “presunte carenze legali” delle licenze concesse da Donald Trump negli ultimi giorni della sua amministrazione. D’altronde è da quattro decenni che i governi repubblicani che si sono avvicendati alla Casa Bianca hanno cercato, in un modo o nell’altro, di dare il via alle trivellazioni petrolifere nell’Arctic National Wildlife Refuge, il più grande dei 16 National Wildlife Refuge dell’Alaska. Un’area selvaggia di circa 8 milioni di ettari, rimasta inviolata per oltre 30 anni e casa di orsi polari, lupi grigi, caribou, alci, uccelli migratori e altri animali selvatici. Un patrimonio incalcolabile che, per inciso, si sta riscaldando tre volte più velocemente del resto del Pianeta.
I tentativi di perforare dagli anni Novanta a oggi – Bill Clinton aveva posto il veto nel 1995 ad un piano dei repubblicani che autorizzava le trivellazioni. In seguito, il presidente George W. Bush aveva fatto delle perforazioni nel più grande rifugio nazionale per la fauna selvatica del Paese un pilastro della sua politica energetica, ma i democratici bloccarono definitivamente il piano nel 2005. Dieci anni dopo, nel gennaio 2015, l’ex presidente Barack Obama, ha interrotto qualsiasi studio geologico per la ricerca di idrocarburi in quei territori, estendendo l’Arctic National Wildlife Refuge da 5 ad oltre 8 milioni di ettari. Un paio di anni dopo, però, alla Casa Bianca sarebbe arrivato Trump. Così, nel 2017, il Congresso ha concesso l’autorizzazione alle attività petrolifere nell’area e nel dicembre 2018 l’Ufficio per la gestione del territorio dell’Interno ha stabilito che la perforazione poteva essere condotta all’interno della pianura costiera senza danneggiare la fauna selvatica. Infine, nell’estate del 2020, il Dipartimento degli Interni Usa ha dato il via libera alle trivellazioni per petrolio e gas, sostenendo che la decisione avrebbe portato nuovi posti di lavoro. Ed è proprio così che, nel corso di questi quattro decenni, la guerra degli idrocarburi è riuscita a dividere anche le comunità native: da un lato gli Inupiat, che vivono vicino alla costa e per i quali l’industria del petrolio rappresenta la possibilità di nuovi posti di lavoro e, dall’altro, i Gwich’in che vivono a sud e che combattono per la tutela di quei territori considerati sacri.
L’ultima mossa di Trump – Su cui, a novembre 2020, c’è stata l’accelerazione del presidente uscente Donald Trump che, dopo aver tolto lo status di area protetta alla foresta nazionale Tongass, una delle maggiori foreste pluviali al mondo, era intenzionato a mettere la firma anche sull’avvio delle trivellazioni all’interno dell’area protetta Arctic National Wildlife Refuge. Così la Casa Bianca, nonostante l’imminente insediamento di Biden che si era detto più volte contrario, si è affrettata a pubblicare le richieste di candidature per le compagnie energetiche interessate a comprare i diritti per trivellare in un’area di circa 600mila ettari. La vendita dei diritti, però, non ha riscosso molto successo. Solo 11 tratti di territori sono andati all’asta, fruttando meno di 14 milioni di dollari, certamente meno di quanto sperasse il governo Trump. E la maggioranza sono state aggiudicate alla Alaska Industrial Development and Export Authority, un’agenzia statale, mentre le grandi compagnie (vedi ExxonMobil e Chevron) non hanno mostrato interesse.
La promessa (mantenuta) di Biden e la guerra del petrolio – Come prevedibile, divide la decisione di Biden di sospendere la vendita dei diritti di trivellazione in Alaska, in attesa di una revisione definitiva degli ultimi provvedimenti del tycoon. Perché da un lato ci sono gli interessi delle compagnie petrolifere che promettono posti di lavoro e reddito sicuro per gli abitanti dell’area, dall’altro c’è il rischio di cambiare per sempre un habitat unico prezioso come non mai contro il cambiamento climatico che proprio l’industria dell’energia fossile così tanto alimenta. “Questa azione non serve ad altri scopi che a ostacolare l’economia dell’Alaska e a mettere a rischio la nostra sicurezza energetica” ha dichiarato la senatrice repubblicana Lisa Murkowski, unica donna eletta al Congresso dall’Alaska. Ma la Casa Bianca difende la sua scelta.
“Joe Biden crede che i tesori nazionali dell’America siano i fondamenti culturali ed economici del nostro Paese”, ha commentato Gina McCarthy, consigliera della Casa Bianca per il clima, spiegando che le decisioni di Trump “avrebbero potuto cambiare per sempre il carattere di questo posto speciale”. Sarà la svolta definitiva? Difficile a dirsi, dato che l’Artico è ricco di idrocarburi. Nell’area del rifugio faunistico si stima ci siano circa 11 miliardi di barili. Eppure sono diverse le ragioni che hanno portato a uno scarso interesse delle big company: dagli alti costi di estrazione in una zona remota senza strade ed infrastrutture, alla posizione espressa da diverse banche americane, non disponibili a finanziare le esplorazioni di idrocarburi nel parco, temendo effetti negativi sulla propria reputazione.
(nella foto: Alaska, immagine d’archivio)