Mafie

Se la liberazione di Giovanni Brusca non ci piace, è perché aspiriamo alla vendetta

Lo “scannacristiani” è libero. Per Giovanni Brusca si sono aperte le porte della galera dopo aver scontato 25 anni di condanna e il pensiero di ciascuno di noi torna indietro nel tempo. La strage di Capaci, la bomba, il telecomando, la collinetta sopra l’autostrada piena di cicche di sigarette dove si era appostato, lo shock e la risposta a schiena dritta di Palermo e poi la corsa in questura delle volanti della mobile, con gli uomini dell’arma in mefisto che consegnavano “u verru” (il porco) alla giustizia, sotto gli occhi di una città che, mai come allora, si è vista unita in un desiderio comune di legalità.

Leggo i commenti di tutti, della politica, dei parenti delle vittime di mafia, dei magistrati di allora e di comuni cittadini, ai quali l’improvvisa scarcerazione del boss di San Giuseppe Jato ha provocato sentimenti contrastanti nei confronti della Giustizia.

Una notizia che arriva nel bel mezzo della discussione sull’ergastolo ostativo e che mi sembra un’ottima occasione, superate le prime ed inevitabili reazioni emotive, per riflettere sul tema dei collaboratori di giustizia, sulla loro gestione, su pene e ricompense e soprattutto sull’idea di Stato che abbiamo, che avremmo o che vorremmo.

Partiamo da un dato oggettivo: Brusca è libero perché questo prevede la legge. Chi parla di “vergogna di Stato” è mosso da sentimenti umani, ma la vera vergogna sarebbe stata non rispettare una norma peraltro voluta da Falcone. Vivere in uno Stato di diritto significa rispettare le leggi e soprattutto che le leggi valgono per tutti, anche per chi scioglie i bambini nell’acido. Se però questo sistema non ci piace, se riteniamo che la giustizia debba essere una canna al vento che si piega ad personam, se riteniamo che lo Stato debba muoversi sulla base di sentimenti di vendetta, giocando sullo stesso piano della mafia, allora è il momento di dirlo, è il momento di scegliere chi vogliamo essere e che ruolo vogliamo avere nella partita del contrasto alle mafie.

Io non credo, come dice Pietro Grasso, che lo Stato con Brusca abbia vinto tre volte. Non saremmo ancora impantanati nella stagione delle stragi se il porco avesse detto tutto, se le sue dichiarazioni fossero state sempre e pienamente confermate dai riscontri e se sapessimo che fine ha fatto il suo patrimonio. Se il suo “pentimento” è profondo e sincero, questo neanche me lo chiedo. La legge sui pentiti si basa su un do ut des e a prescindere dalla moralità, dalla fede e del tormento interiore di ciascun pentito, “dare per avere” è comunque nei fatti. Se è legittimo per lo Stato perché non dovrebbe esserlo per un collaboratore di mafia? Ad ogni modo è vero che Brusca ha dato il suo contributo, anche al netto delle cose che non tornano e, di fronte a questo, lo Stato ha preso un impegno. A differenza di tutti gli altri collaboratori, Brusca non ha mai usufruito dei domiciliari (dovremmo chiederci perché), ma ora che è fuori la tutela della sua vita è responsabilità dello Stato, come quella di trovargli una casa, pagargli uno stipendio e aiutarlo a reinserirsi nella società trovandogli un lavoro. E’ quello che implicitamente prevede ciò che a gran voce i più difendono: l’ergastolo ostativo. Se non parli stai dentro e non godi di alcun beneficio, se parli ti veniamo incontro. Do ut des.

Se questo non ci piace bisogna trovare il coraggio di ammettere che non ci piace neanche l’ergastolo ostativo e non perché ce lo dicono le sentenze della Consulta e della Corte europea dei diritti umani. Siamo contrari perché vogliamo di più, perché in realtà aspiriamo alla vendetta. Allora faccio mie le parole di Angelo Provenzano che vedendo morire il padre ridotto a un vegetale, dietro a un ormai inutile vetro divisorio imposto dal 41bis, ha affermato: “meglio la pena di morte”. Vorrei sottolineare, per i più “lentini”, che personalmente non approverei mai la pena di morte e non credo neanche che a volerla fosse il figlio di Binnu, ma la sua resta una buona allegoria. Ciascuno di noi può pensarla come vuole, ma se ad accomunarci è il senso dello Stato, è proprio a questa istituzione che tocca chiedersi quale sia il limite tra la pena inflitta dalla giustizia, l’accanimento avallato per motivi di opinione pubblica e le strategie di “conversione alla collaborazione”.

I boss di quella stagione, il tempo piano piano li sta portando via. Restano i misteri, l’orrore vissuto in quegli anni, il dolore incurabile dei familiari e un’idea di mafia, sempre più lontana nel tempo, alla quale ci siamo avvinghiati, convinti per questo di avere uno stemma antimafia tatuato in fronte. La vediamo come ce l’ha raccontata Buscetta e continuiamo a combatterla con gli strumenti di allora, incluso l’ergastolo ostativo, che piace e non piace a seconda delle prospettive (se in dare o in avere).

Il Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, sottolinea che la liberazione di Giovanni Brusca è una vittoria dello Stato “perché è applicando il diritto anche nei confronti della mafia che lo Stato vince”. E aggiunge che per contrastare le mafie “sono necessari strumenti sempre più efficaci per batterle non solo quando usano la violenza per raggiungere il controllo dei territori o per condizionare lo Stato, ma anche per impedire di infiltrarsi nell’economia e nella politica”. Lo leggo come un invito, non si può andare avanti solo di intercettazioni e collaboratori. Non con la mafia di oggi che corre veloce, che non fa rumore, che più che i territori controlla i patrimoni e che di grandi boss all’ergastolo, ostativo o meno che sia, non ne ha. Al massimo latitanti o in esilio volontario, alle Cayman.