di Gionata Borin

L’indignazione di alcuni leader politici, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, per la scarcerazione del pentito Giovanni Brusca (scaturita da una legge fortemente voluta da Giovanni Falcone), sembrerebbe una strategia di alcune forze politiche per tentare di smantellare la legislazione antimafia vigente e, nello specifico, la legge sui collaboratori di giustizia, soffiando sul fuoco delle emozioni e delle sensazioni di pancia della gente.

Il fenomeno del “pentitismo” è fondamentale per cercare di scardinare dal suo interno un sistema come quello mafioso, fondato da vincoli associativi segreti, per squarciare il velo dell’omertà. Per questo lo Stato deve incentivare i mafiosi a collaborare, deve rendere (è brutto dirlo) “conveniente” al mafioso la scelta della collaborazione: garantendo la protezione sua e dei suoi familiari; sconti di pena; permessi premio. I collaboratori di giustizia sono un “male necessario” per disarticolare dall’interno le organizzazioni criminali; ancora più preziosi lo sono oggi, da quando alcuni boss della ‘Ndrangheta, organizzazione strutturata maggiormente da legami di sangue rispetto a Cosa nostra, hanno iniziato a pentirsi e dove, a causa del vincolo parentale, ha reso in passato la collaborazione con lo Stato meno diffusa rispetto alla mafia sicula.

L’utilità della legge sui collaboratori di giustizia è un dato storico: il Maxi Processo a Cosa nostra istruito dal pool Antimafia di Falcone e Borsellino è fondato sulle dichiarazioni dei primi collaboratori: Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone, eccetera. Successivamente, vari altri collaboratori sono stati fondamentali per arrivare ad arresti e inchieste importanti (si veda la scoperta del depistaggio sulla strage di via D’Amelio, scaturita dalle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza).

Purtroppo, parte della politica e della stampa asservita ha cercato negli anni di screditare i “pentiti”, o meglio il fenomeno in sé, con le accuse più becere: quella di essere “diretti” e “manovrati” dalle Procure; o accusare la magistratura d’imbastire processi basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni degli stessi, dimenticando scientemente che tali dichiarazioni devono essere vagliate dai riscontri e che le Procure hanno la possibilità di valutare l’attendibilità o meno del pentito. Per non parlare del fatto che le accuse mosse contro la gestione dei collaboratori non hanno inizio quando dalle dichiarazioni scaturiscono i nomi di altri mafiosi, ma bensì quelli dei presunti complici e fiancheggiatori, cioè dei “colletti bianchi”, dei politici.

Questa strategia nel cercare di smantellare la legislazione antimafia la si è vista in maniera trasversale, nei 30 anni di Seconda Repubblica: chiusura delle super carceri di Pianosa e Asinara; ricorsi alla Consulta sulla presunta incostituzionalità del regime di 41 bis; polemiche pretestuose sulla contestazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa; limiti all’uso delle intercettazioni e, proprio sui “pentiti”, venne varata una modificata alla disciplina, con la legge 45/2001, che introdusse il limite massimo di 180 giorni di tempo per un pentito nel raccontare tutto quello di cui è a conoscenza (limite ritenuto dai pm antimafia troppo breve per chi è chiamato a ricordare fatti criminosi talvolta remoti nel tempo). Una legge, questa, che spinse l’allora procuratore Pietro Grasso a dichiarare pubblicamente: “Con questa legge, se fossi un mafioso, non mi pentirei più”.

Purtroppo, la stessa indignazione da parte dei politici per la scarcerazione di Brusca non la si è vista nei confronti della sentenza della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità dell’art.4 bis dell’ordinamento penitenziario sull’ergastolo ostativo, dove prevede agevolazioni carcerarie solo ed esclusivamente nei confronti del mafioso che collabora con lo Stato. Tira una brutta aria nei confronti della legislazione antimafia. Vigiliamo.

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