Si dovrebbe pur anche parlare del futuro delle città, nella battaglia politica elettorale che si sta aprendo da Roma a Milano, da Bologna a Torino. Invece stiamo assistendo ai soliti asfittici tira-e-molla delle lobby e delle correnti costituite in partiti politici, di primarie ridotte alla “ridicola e masochista” (copyright di Arturo Parisi, uno dei fondatori dell’Ulivo) ricerca di nomi di donne da schierare di contorno, oppure, tutt’al più, ai novelli autocrati come il sindaco di Milano Beppe Sala, che partono in anticipo schierando improvvisate liste di contorno pur di non contrattare poltrone con i vari Letta e Conte.
Di come si dovrà vivere domani nelle città, in concreto, si parla invece tanto nel resto del mondo occidentale avanzato. Da Parigi, dove la riconferma della paladina della pedonalizzazione e della mobilità dolce Anna Hidalgo è avvenuta con un incremento dei voti ai verdi, si sta affermando il nuovo modello di “ville du quart d’heure”, città da quindici minuti. L’idea di un indirizzo politico che modelli da capo le città per ridurre la necessità di muoversi agli abitanti è stata lanciata all’università della Sorbona dal professore d’origine colombiana Carlos Moreno. Assomiglia molto allo schema storico del mondo anglosassone di aggregati urbani composti da “neighborhood unit”, unità di vicinato, e nel Nord Europa più organizzato è stato già declinato addirittura in blocchi di “città da cinque minuti”.
Dai superblocks di Barcellona, Sydney e Portland a quasi tutte le città olandesi, il modello della riconversione delle metropoli in unità di quartiere funziona perfettamente ormai da anni: non si traduce in una sorta di ritorno al piccolo mondo antico, ma, grazie alle nuove tecnologie e a forti investimenti culturali, viene declinato in “localismo cosmopolita”, come lo chiama il maestro italiano del social design sostenibile Ezio Manzini. E se c’è chi sostiene che la pandemia sia stata l’occasione di un inatteso gigantesco esperimento di nuovo controllo sociale, di certo lo smart-working e le regole dei lockdown hanno in qualche modo costretto milioni di cittadini a vivere di più la prossimità e il vicinato, come si è visto bene soprattutto al primo giro di restrizioni.
L’invenzione di un nuovo modo di vivere le città è un’operazione comunque alquanto complessa, ma la prima parola d’ordine è la riconversione della mobilità. A Berlino, per esempio, mentre l’intera Germania si avvia verso la vittoria elettorale dei Verdi moderati e realisti, già si raccolgono le firme per un referendum che costringa l’amministrazione a raggiungere l’obiettivo di una metropoli addirittura ‘car-free’ entro il 2030. Tramontati i grandi blocchi ideologici e consumatosi quasi in tragedia l’esito del trentennio di pensiero unico dominante del capitalismo finanziario globalizzato, la riconversione al modello urbano più sostenibile basato sulla cosiddetta “prossimità” si profila come qualcosa di più di una rivisitazione della mobilità, con il traffico automobilistico disincentivato e la ciclo-pedonalizzazione diffusa.
Tra l’altro, il modello “ville du quart d’heure” potrebbe essere perseguito dalle città italiane con notevoli ricadute socio-economiche positive, pensiamo soltanto agli effetti di una nuova politica d’incentivi alle attività artigiane e di piccolo commercio. Ma è anche una suggestione in grado di rifondare la sinistra, in una chiave dove peraltro risuona l’eco del mutualismo libertario di Proudhon, e la politica stessa, perché richiede una certa impermeabilità ai grandi interessi e una forte propensione alla mediazione, al rapporto con le realtà sociali e le persone, insomma a tutto ciò a cui l’attuale nostra classe dirigente si mostra generalmente parecchio allergica.
Soprattutto, a compiti così ambiziosi non possono che corrispondere personalità di spessore, se non proprio esemplari, dato che, quando si parla di spingere i cittadini a meglio “abitare la prossimità” nella vita delle metropoli post-industriali non s’intende solo qualcosa di puramente pratico, ma anche, in qualche modo, di invitare tutti noi alla riscoperta di un concreto e più umano “farsi prossimo”. E’ ciò che suggerisce la parola stessa ‘prossimo’ (dal ‘plesion’ greco al ‘proximo’ latino che la cristianità ha interpretato estensivamente addirittura in “ciascun uomo, umanità in genere”, come evidenziato già nel 1200 dal grammatico bolognese Guido Faba), che nella cultura anglosassone è stato tradotto con ‘nearby’, riportando dunque proprio al tema del vicinato.