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Dalle scuse sbagliate di Di Maio ai referendum di Salvini&C: è il cortocircuito del falso garantismo

Non si sa bene cosa pensare e nemmeno se vale troppo la pena di interrogarsi sulle motivazioni che hanno indotto Luigi Di Maio a darsi la pena di scrivere e recapitare al Foglio una lettera di scuse indirizzata all’ex sindaco del Pd di Lodi, Simone Uggetti, all’indomani dell’assoluzione in appello, di cui non sono ancora note le motivazioni e nemmeno la decisione di impugnare da parte della procura, dopo la condanna in primo grado per turbativa d’asta.

L’attuale ministro degli Esteri del governo Draghi, in termini puramente psicologici, deve essersi visto con gli occhi di oggi come una sorta di “straniero” a se stesso – per usare un’immagine folgorante di Camus – in quella piazza di Lodi del lontano 2016 durante l’accesa campagna elettorale per le amministrative mentre chiedeva a gran voce, in sintonia con la Lega, le dimissioni del sindaco dopo che era già stato arrestato. Di Maio riconosce nella lettera, caratterizzata da tratti umani e dolenti, più confacenti ad un ambito privato che alla pubblicazione su una testata da sempre megafono del garantismo impunitario quale è Il Foglio, che “l’arresto era senz’altro un fatto grave in sé, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni appaiono grottesche e disdicevoli“.

Nella condanna generica dell’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale, con esplicito riferimento all’immagine delle manette, utilizzato allora e non solo in quella occasione da Salvini, Di Maio ha accomunato una serie di esempi, situazioni e nomi che non hanno nessun minimo comune denominatore: da Federica Guidi, ex ministra accompagnata alla porta Matteo Renzi per il caso Tempa Rossa, fino a Virginia Raggi a cui viene riservato da sempre da politica ed informazione un trattamento “unico” a prescindere da qualsiasi risultanza processuale o logica, come sta dimostrando la grottesca campagna denigratoria in atto per un refuso su una targa stradale.

Nell’ansia più o meno consapevole di adeguarsi all’innegabile aria di restaurazione che tira, soprattutto e più pericolosamente che mai sulla Giustizia, Di Maio ha sbagliato a scegliere come paradigma per un mutato e nuovo approccio nel rapporto tra difesa della legalità e garanzie dell’imputato il caso di un sindaco che ha ammesso di aver cancellato la prova di aver costruito un bando su misura per la società che voleva favorire e che ora attacca a testa bassa l’unico giornale reo di aver riportato le sue dichiarazioni, mentre si guarda bene dal fornire spiegazioni attendibili sui verbali. E bene hanno fatto a reagire sia gli attivisti M5S di Lodi che si sono sentiti scaricati e gravati in totale solitudine dall’onta giustizialista. A tal proposito va citato il caso dell’allora sindaco 5S di Livorno Filippo Nogarin, destinatario di un avviso di garanzia, dopo aver portato lui tesso i libri di una municipalizzata in tribunale: fu in seguito archiviato ma additato al pubblico ludibrio dal duo Renzi- Boschi con l’accusa ai grillini di essere passati da “onestà-onestà ad omertà”.

Anche se poteva ipotizzare il tenore delle reazioni che si sarebbero innescate dopo il suo intervento, in una fase in cui incombe sulla Giustizia un formidabile e compatto disegno di realizzazione degli obiettivi vagheggiati fin dai tempi della Bicamerale di Berlusconi e D’Alema, Luigi Di Maio non poteva forse prevedere un’ulteriore ciliegina sulla torta.

Infatti poco dopo il suo mea culpa che secondo gli alleati dell’ammucchiata di governo dovrebbe indurre il M5S “per coerenza” a rinunciare al blocco della prescrizione “troppo cara ai giustizialisti”, il sindaco martire Simone Uggetti diventa insieme all’inossidabile maitre à penser dem, Goffredo Bettini, un sostenitore-bandiera dei referendum garantisti di Radicali e Lega. Sempre in una lettera inviata al Foglio, il consigliere speciale dei segretari dem – da Veltroni a Zingaretti – ha precisato che non può “rimanere indifferente ai quesiti del Partito Radicale sulla giustizia che vanno considerati con grande attenzione e coraggio”.

Un’evidente ed allarmante conferma che ad “andare in tilt sulla giustizia” purtroppo non è solo Matteo Salvini è il fatto che l’asse a sostegno dell’accozzaglia di quesiti – accomunati solo dall’intento punitivo nei confronti dei magistrati e che si riversa puntualmente contro i cittadini e gli imputati realmente innocenti, all’esatto contrario di quanto sostengono i promotori – si va allargando dai due Matteo fino al Pd. E pensare che solo lo scorso 13 maggio l’attuale segretario Enrico Letta aveva detto testualmente: “Non crediamo in questa fase ad altre forme e modalità di riforma della giustizia. L’idea di buttare la palla in calcio d’angolo facendo altri ennesimi referendum non va bene” visto che “questi temi hanno bisogno di risposte entro questa estate, se non vogliamo bloccare il processo del Recovery”.

Invece il menù referendario che include responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, limiti alla custodia cautelare, abolizione della legge Severino, elezione del Csm ed “equa valutazione” dei pm, e dunque improntato ad un evidente spirito anti-pm non proprio inedito e su cui B. può vantare un indiscusso copyright, non ha solo accomunato in modo quasi patetico per bisogno reciproco Salvini e Radicali, da sempre su fronti opposti, ma ha finito per essere un richiamo irresistibile anche per tanti all’interno del Pd.

E così il partito “nuovo” di Letta rischia di allinearsi perfettamente alla confusione, all’ipocrisia e alla strumentalità che si annida dietro alla ragione sociale del garantismo senza bussola e fondamenti giuridici secondo le convenienze e la propaganda politico-mediatica prevalente.

Ma basterebbe pensare a quello che si è dovuto ascoltare in una manciata di giorni a proposito degli arresti per la funivia, della sentenza sul disastro ambientale dell’Ilva peraltro emessa da una corte d’Assise e non dagli odiosi togati, nonché della scarcerazione di Giovanni Brusca, per rendersi conto della tempra dei sedicenti garantisti. Per non parlare dei tribunali mediatici speciali permanenti insediati in talk show e redazioni dove nugoli di garantisti doc hanno condannato in via definitiva da settimane Grillo jr e compagni, a causa del cognome di uno di loro.

Aggiornato da redazione web alle ore 19.56 del giorno 4 giugno 2021