Marwa Mahmoud, esponente dem in consiglio comunale, parla del caso della 18enne pakistana scomparsa da oltre un mese nella Bassa Reggiana. E fa un appello alla classe dirigente nazionale del Partito democratico: "Si deve cogliere il pretesto di quanto sta accadendo per non lasciare vuoti politici. Perché poi la nostra assenza va a discapito delle persone"
La 18enne pakistana Saman Abbas è sparita da più di un mese. Da più di un mese i carabinieri cercano il suo corpo nella Bassa Reggiana, nei campi dietro casa, là dove i familiari sono accusati di averla uccisa dopo che ha rifiutato un matrimonio forzato. La sua storia a fatica ha ottenuto le prime pagine dei giornali e con ancora più fatica ha ricevuto la solidarietà degli esponenti politici. E soprattutto a sinistra. A fare un appello al Partito democratico nazionale e al suo segretario Enrico Letta perché “ci mettano la faccia”, è la consigliera comunale del Pd a Reggio Emilia Marwa Mahmoud. Musulmana, nata ad Alessandria d’Egitto, da più di 35 anni vive nella città emiliana: qui nel 2019 è stata eletta nelle fila dei democratici e presiede la commissione diritti umani. Il 2 giugno ha rilasciato un’intervista al giornale locale il Resto del Carlino chiedendo un presa di posizione ai suoi, ma passano le ore e poco o niente è successo. Continua il silenzio. “Chi riveste un ruolo pubblico deva dare chiavi di lettura”, dice. Serve “una condanna unanime” da parte della classe politica nazionale della sinistra seppur “senza stigmatizzare”: “Si deve cogliere il pretesto di quanto sta accadendo per non lasciare vuoti politici. Perché poi la nostra assenza va a discapito delle persone”. Ma, continua, “è più facile esprimere forme di paternalismo rispetto ai migranti piuttosto che andare a districare temi complessi che riguardano le nostre comunità”. Tra i primi a parlare del caso ci sono stati i leader di destra, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, nessun commento invece è arrivato finora da Enrico Letta o Giuseppe Conte. “Non mi fanno paura le strumentalizzazioni della destra, ma il silenzio della sinistra”. Secondo Mahmoud, come aveva detto la presidente della onlus Trama di Terre Tiziana Dal Pra a ilfatto.it, il caso va trattato come un episodio di “violenza contro le donne”. E l’Islam non c’entra? “Queste prassi non sono giustificate né nei Paesi d’origine né dalla religione, vengono perpetuate da alcune famiglie che impongono un sistema patriarcale”. E il vero allarme, anche in terre come l’Emilia-Romagna, è sulla mancata integrazione: “In questi anni c’è stata tanta autoreferenzialità e poca autoanalisi”, chiude.
Lei è tra i pochissimi esponenti Pd che hanno preso posizione sul caso. Perché?
Sono certa che molti amministratori locali, soprattutto del Pd, pensano di aver fatto la loro parte perché hanno espresso solidarietà. E da un certo punto di vista, l’impegno c’è stato. Però, secondo me, chi riveste un ruolo pubblico dovrebbe dare chiavi di lettura e cercare di accompagnare il pensiero, fornendo degli spunti. Se non argomentiamo e non entriamo nel dibattito pubblico, lasciamo spazi vuoti e li lasciamo agli altri.
Almeno a livello locale qualcuno ha parlato, tutto tace sul fronte nazionale?
Io mi sento di dover fare un appello alla classe dirigente nazionale perché inizi a prendere più seriamente la questione e meno con un approccio paternalista-assistenzialista. Non si possono più sottovalutare alcune prassi che vengono perpetuate in certi contesti della nostra società, ma anzi bisogna lavorare sulla prevenzione. Questo non vuol dire stigmatizzare persone di nazionalità o fedi diverse: i matrimoni combinati sono esistiti anche all’interno della nostra società. Quello da condannare è il matrimonio forzato, laddove quella combinazione non trova consensualità da una parte o dall’altra.
E’ un problema di religione?
Io rispondo con il comunicato stampa di condanna dell’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii) e l’associazione delle guide religiose degli Imam in Italia. La chiave di lettura qui non sono la cultura o la fede, ma i diritti umani e i diritti civili. Qui siamo tutte e tutti figli sani del patriarcato, a qualsiasi latitudine ci troviamo. Poi è logico che quella di Saman è una famiglia che si ritrovava ad avere tante componenti identitarie, con un background migratorio e una fede differente. Ma per me non cambia nulla rispetto a un femminicidio. E’ la stessa identica battaglia: vivere l’amore e l’affettività con consenso in un rapporto di due persone che si vogliono bene.
L’Ucoii può emettere una “fatwa”? E che effetti ha?
Sì, sono 110 gli Imam in tutta Italia che aderiscono all’Unione. E’ un atto molto importante: è una condanna pubblica che viene adottata e recepita a livello nazionale da tanti luoghi di culto che vogliono prendere le distanze da queste pratiche e vogliono comunicarlo.
Ma non arriva troppo tardi?
Non ci sarebbe neanche bisogno di farla: per le comunità musulmane è scontato che una cosa del genere è condannata dalla religione. Queste prassi non sono giustificate né nei Paesi d’origine né dalla religione, vengono perpetuate da alcune famiglie che impongono un sistema patriarcale. Ma non c’è nessun appoggio normativo: i matrimoni forzati e i crimini sessuali sono condannati dal codice penale anche nei Paesi d’origine. E come dopo un attentato terroristico, quando ci chiedono di dissociarsi: è ovvio che ci dissociamo, non dovremmo neanche dirlo. Ma se è necessario, lo facciamo.
E perché la sinistra non prende posizione?
C’è il timore di essere additati come razzisti. Non è che si stanno sottraendo perché sono d’accordo, ma perché, secondo me, c’è grande povertà culturale e rielaborazione rispetto a questi temi. L’errore più grande che può commettere la sinistra è creare relativismo culturale. Condannano con grande fermezza femminicidi e violenza quando si tratta di donne italiane, ma quando coinvolgono vittime di origine straniera diventano battaglie di serie B. Questo critico tanto a una certa parte della sinistra. Qui si tratta di violazione dei diritti umani. E’ un caso che va trattato come un qualsiasi femminicidio.
E’ più facile mostrare solidarietà ai migranti, piuttosto che affrontare i problemi delle nostre comunità?
Certo, è più semplice esprimere forme di paternalismo rispetto ai migranti. Ma quando si tratta di andare a districare temi così complessi, ci vogliono politici preparati. E forse la classe dirigente non è così pronta.
Secondo lei dovrebbe parlare anche il segretario Pd Enrico Letta?
La classe politica nazionale della sinistra deve condannare senza stigmatizzare, deve cogliere il pretesto di quanto sta accadendo per non lasciare vuoti politici, per non permettere che altri ci costruiscano una becera strumentalizzazione. Perché poi la nostra assenza nel dibattito politico e pubblico va a discapito delle persone che credono in noi, degli uomini e delle donne che sono in attesa che le persone ci mettano la faccia.
E invece il Pd ha aspettato che a parlare fosse la “consigliera con il velo”…
Ci ho pensato tanto se prendere posizione o meno, mi spiace essere ridotta al titolo dell’islamica del Pd. Non è giusto che sia ridotto tutto alla mia fede, così come qualsiasi altro consigliere non sarebbe chiamato il “cattolico” del Pd. Mi rendo conto che la mia presenza e le mie parole hanno una valenza plurima perché vanno a impattare da una parte e dell’altra, sono rappresentativi di una certa sinistra, ma anche di tante altre persone che cercano rappresentanza nelle istituzioni. Seppur la parte politica mi vede sola, io non mi percepisco sola. Mi sento di rappresentare voci di uomini e donne che non hanno il peso politico che ho io. Mi fa strano che debba essere io a mettere sul tavolo tutte queste argomentazioni. Io pensavo che questi temi fossero di più nelle mani della sinistra in Italia. E invece no.
Non ha paura di essere strumentalizzata a destra?
Una cosa che non temo sono gli attacchi delle opposizioni. So come la pensano e loro cercano sempre di ricondurmi al solito cliché, ma io non temo gli attacchi dell’altra parte. Io ho timore di chi è complice, tace e non interviene. Mi preoccupa molto di più il silenzio dei nostri.
Che cosa si deve fare perché queste violenze non si ripetano?
Non c’è un’unica via d’uscita. Sul fronte dei matrimoni forzati come sulle mutilazioni genitali femminili, serve un sistema integrato di azioni da fare su più fronti. Quello educativo, sociosanitario, poi quello delle forze dell’ordine e delle istituzioni. Servono campagne di sensibilizzazione e poi servono alleanze con tutti i centri aggregativi, i luoghi di culto, quei luoghi dove si formano i pensieri. Serve un’analisi critica e può essere costruttiva se la pensiamo insieme.
Se nel 2021 ancora affrontiamo casi come quello di Sanam, non significa che è anche fallito un modello di integrazione rivendicato dall’Emilia?
Sì, bisogna fare autocritica. Credo che se siamo ancora qui a parlare di coesione sociale, vuol dire che i problemi non sono stati affrontati in maniera sistemica: si è scelto sempre e solo l’assistenzialismo e i temi non sono stati districati fino in fondo. In questi anni c’è stata tanta autoreferenzialità e si è fatta poca autoanalisi rispetto ad alcuni temi che andavano presi di petto. Ci sono tanti aspetti sottovalutati perché tabù e invece dobbiamo iniziare ad affrontarli. Ad esempio ascoltiamo di più chi lavora sul nostro territorio. Penso a Trama di Terre, la realtà di Imola che lavora da anni sul tema dei matrimoni forzati. Ripartiamo da loro.