'ndrangheta

Reggio Calabria e il falso attentato del 2004 al sindaco Scopelliti: la ‘ndrangheta e il ruolo dello 007 Mancini nella “pagliacciata” del tritolo senza innesco

Era quella del vice di Pollari la firma sotto le tre informative scritte su carta intestata del Sismi e riguardanti il presunto atto intimidatorio (che in realtà si è rivelato una messinscena) organizzato dai vertici dei clan con la collaborazione dei servizi, e mascherata da finto attentato. L'obiettivo, secondo la Procura, era la pioggia di milioni di euro che sarebbero piovuti, dal 2002 al 2010, sulla città. “Un enorme flusso di denaro che doveva essere messo a sistema” attraverso “le società miste, il decreto Reggio e il controllo di settori strategici”

Una “pagliacciata” dove ognuno ha recitato la sua parte: barbe finte, politici e ‘ndrangheta. Per comprendere come, in riva allo Stretto, si sia “attuato un disegno eversivo per circa 15 anni”, è necessario partire dalla requisitoria del processo “Gotha” e dalle parole pronunciate nei giorni scorsi, in aula bunker, dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo per descrivere il ritrovamento di alcuni panetti di tritolo in un bagno di Palazzo San Giorgio. È il 6 ottobre 2004. Il Comune è guidato dal sindaco Giuseppe Scopelliti messo lì, stando alla ricostruzione della Dda, dalla componente riservata della ‘ndrangheta e dal burattinaio Paolo Romeo, avvocato ed ex parlamentare del Psdi, già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Principale imputato del processo “Gotha”, è lui che, intercettato, spiega cos’era allora Scopelliti. L’ex sindaco non è sotto processo ma è indagato per reato connesso. Se per la città era l’uomo forte di An, destinato a diventare nel 2010 governatore della Calabria, per Romeo il giovane sindaco era un “braciolettone”, uno che “deve fare il cane da mandria”.

“Se fa il podestà o un altro lo facciamo morire politicamente”. Per la Procura, erano queste le regole di ingaggio a cui Scopelliti doveva attenersi. Dopo aver sperato invano in una candidatura alle europee del giugno 2004, quell’autunno l’ex sindaco affronta una crisi politica, dentro e fuori il palazzo. In quei mesi, infatti, il pupo si sente puparo e il direttorio delle cosche comprende che serve una scossa. A darla sarebbe stata proprio la componente riservata della ‘ndrangheta. “Scopelliti – ha spiegato il pm in aula – comincia a capire che il disegno è più grande di lui. Romeo sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui Scopelliti si sentirà sindaco e si dimenticherà chi lo ha messo lì”. Occorreva ricordagli i patti: “Tu finisci quando lo diciamo noi e diventi il numero uno, se noi decidiamo in quel senso”. Il Romeo pensiero lo sintetizza sempre il procuratore aggiunto Lombardo che, durante la requisitoria, spiega pure come la componente riservata della ‘ndrangheta ha superato l’impasse: “Nel 2004 Scopelliti non può essere abbandonato. Deve subire soltanto il segnale che quel sistema gli manda e deve capire che quel sistema è in grado di recuperarlo e di collocarlo. La crisi finisce con la pagliacciata dell’esplosivo al Comune. Quella è un’emerita pagliacciata che serve a creare ‘Scopelliti sindaco antimafia’ e mandare a Scopelliti un insieme di messaggi”. Detto fatto: il leader reggino di An “capisce che non è padrone di niente, torna a essere e a fare il cane da mandria”.

Solo se si parte da qui si riesce a comprendere il colpo di teatro organizzato a tavolino tra il 6 e il 7 ottobre 2004 a Palazzo San Giorgio. Politica, “riservati” della ‘ndrangheta, pezzi delle istituzioni e apparati di sicurezza sono tutti scritturati per la sceneggiata. Ognuno recita la sua parte e nei bagni del Comune la polizia trova alcuni panetti di tritolo. Per ricostruire il contesto di quella giornata confusionaria, la requisitoria di “Gotha” non basta. Occorre intrecciare le notizie uscite sulla stampa e gli atti di altri processi. Il primo take dell’Ansa, la mattina del 7 ottobre, parla di una segnalazione “anonima” che ha consentito il rinvenimento dei tre panetti di esplosivo: 600 grammi di tritolo “tenuti insieme – scrive l’agenzia di stampa – da un nastro adesivo di colore nero, a cui era stata fissata la mascherina di un telefono cellulare. L’ordigno è stato abilmente occultato nella parte posteriore del water. Due ore più tardi, l’anonimo segnalatore diventa semplicemente il Sismi ma “fonti investigative hanno confermato che l’esplosivo non poteva esplodere per mancanza di inneschi”.

Era quella di Marco Mancini, il vice di Pollari, la firma sotto le tre informative scritte su carta intestata del Sismi e riguardanti il presunto atto intimidatorio che oggi scopriamo essere una messinscena, organizzata dai vertici della ‘ndrangheta con la collaborazione dei servizi, e mascherata da finto attentato a Scopelliti. La prima nota fece scoprire i panetti di tritolo dietro il water del Comune collocato dall’altra parte del palazzo rispetto alla stanza del sindaco. La seconda svelò che l’ordigno l’aveva collocato la ‘ndrangheta e che sarebbe esploso tra le 10 e le 10.30 del 7 ottobre 2004. La terza individuò l’obiettivo dell’attentato nel sindaco Giuseppe Scopelliti, all’epoca militante di Alleanza Nazionale e fedelissimo di Gianfranco Fini. Al politico reggino fu assegnata in fretta e furia la scorta. Tanto in fretta che il prefetto dell’epoca riunì urgentemente il Comitato per la Sicurezza pubblica che dispose il provvedimento diverse ore prima che gli artificieri mettessero le mani sul tritolo.

E qui iniziano le prime anomalie: l’informazione sulla bomba arrivò in questura ma a Piazza Italia, dove si affaccia palazzo San Giorgio, c’erano anche i carabinieri perché l’allora questore Vincenzo Speranza chiese al comando provinciale dell’Arma di partecipare all’operazione congiunta. All’interno del Comune, però, i carabinieri non entrarono e qualcuno giura di aver sentito l’allora colonnello Antonio Fiano dire al questore: “Se sai dov’è vallo a prendere”. Nessuno dei due può confermare la circostanza, perché deceduti, ma il dato certo è che non ci sarebbe stata nessuna esplosione tra le 10 e le 10.30 del 7 ottobre perché quel tritolo era privo di innesco e, per deflagrare, sarebbe stato necessario che il bombarolo fosse tornato in quel bagno per finire il lavoro. A quel punto la polizia l’avrebbe potuto arrestare in flagranza di reato ma soprattutto avrebbe avuto un nome su cui indagare per capire chi voleva attentare alla vita Scopelliti.

E invece no. In un’interrogazione parlamentare di qualche anno dopo c’è scritto che quel ritrovamento è costato al Sismi “ben 300mila euro” che, però, non sono bastati per scoprire, a distanza di quasi 17 anni, nemmeno quale cosca fosse coinvolta. L’esplosivo proveniva dalla stiva della “Laura C”, la nave affondata a largo di Melito Porto Salvo, ed era identico all’esplosivo sequestrato dalla guardia di finanza nell’ambito dell’inchiesta “Bumma” chiusa poche settimane prima dalla Dda. Se il tritolo sequestrato alla cosca Iamonte, grazie anche a un infiltrato, era della partita di quello trovato a Palazzo San Giorgio, è lecito supporre che i due fatti possano essere maturati nello stesso ambiente. La squadra mobile dell’epoca ci provò a indagare chiedendo l’aiuto anche a un confidente e futuro collaboratore di giustizia. Nei giorni successivi al rinvenimento del tritolo, infatti, è entrato in scena Roberto Moio, nipote del boss Giovanni Tegano. Dieci anni prima di saltare il fosso e pentirsi, Moio già ammiccava ai poliziotti prestandosi a fare addirittura l’agente provocatore nel tentativo di capire cosa c’era dietro il presunto attentato a Scopelliti.

Sette anni più tardi, nel 2011, il pentito ha descritto la frenesia degli investigatori nelle settimane successive a quel 6 ottobre. Lo ha fatto in aula davanti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria dove si stava celebrando il processo “Testamento” contro la cosca Libri. In quell’interrogatorio, Roberto Moio svelò, per la prima volta, un particolare importante. Subito dopo il ritrovamento del tritolo, la squadra mobile ha iniziato le indagini, mise sotto intercettazione i padrini di Archi e gli esponenti di primo piano della criminalità organizzata reggina. “Durante quel periodo, – ha raccontato il collaboratore – c’è stata la bomba che gli avevano messo là, una bomba lì al sindaco Scopelliti, a Peppe Scopelliti, e la Questura mi aveva detto se potevamo sapere chi era, perché c’è stato un pochettino di scalpore là a Reggio Calabria, se potevamo scoprire insomma chi erano gli autori di questo! E io misi quattro chili e mezzo di plastico come esca”. Ecco, quindi, che la storia criminale di Moio si intreccia con l’inchiesta “Bumma”: “Durante il periodo del… del plastico, – sono sempre le parole di Moio – dell’esplosivo che io dovevo consegnare, che ho consegnato a queste persone, l’acquirente di questo era… uno praticamente che lavorava per i carabinieri, e sono… e siamo stati arrestati io e queste tre persone. Fui arrestato”.

In realtà l’infiltrato era della guardia di finanza, ma a questo punto occorre soffermarsi su un passaggio fondamentale del ragionamento di Moio rispetto al suo tentativo di scoprire chi aveva piazzato l’esplosivo nei bagni del Comune: “Parlando con persone, Tullio Martelli e Enzo e altri, mi avevano detto che erano una cosa di ragazzi. La questura cercava di indagare insomma di più”. Una “cosa di ragazzi” quindi. Un modo come un altro per dire che la ‘ndrangheta, quella “territoriale”, non aveva nulla a che fare con il tritolo altrimenti Moio, essendo il nipote del boss Giovanni Tegano, sarebbe stato in grado quantomeno di sapere i nomi dei responsabili. La versione di Moio fa il paio con quella, più recente, del neo pentito Seby Vecchio, ex assessore comunale di Reggio e soprattutto poliziotto. È stato arrestato lo scorso ottobre e ha subito iniziato a collaborare con il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e con i sostituti della Dda Stefano Musolino e Walter Ignazitto. Il 24 marzo è stato sentito nel processo “Gotha” e, rispondendo alle domande del presidente del Tribunale Silvia Capone, ha parlato dell’attentato a Palazzo San Giorgio tirando dentro il Sismi: “C’era stato l’interesse di Nicola (Nicolò, ndr) Pollari in questa situazione. Di Nicola (Nicolò, ndr) Pollari come servizi segreti, coinvolgendo anche altre persone esterne ai servizi segreti affinché questo (Scopelliti, ndr) potesse andare in alto e portarlo comunque avanti”.

Sismi, ‘ndrangheta e politica, quindi, in una città come Reggio Calabria dove l’agente segreto Marco Mancini era di casa. E non solo perché il capo dei servizi, Nicolò Pollari, aveva da poco iniziato a insegnare all’Università “Mediterranea” ma anche perché Mancini era in contatto con Giovanni Zumbo, il commercialista imputato nel processo “Gotha” e già condannato per essere stato la talpa dei boss Giovanni Ficara e Giuseppe Pelle. Al capocosca di San Luca, Zumbo confida che i servizi sono i “peggiu porcarusi du mundu!”, aggiungendo poi: “Ed io che mi sento una persona onesta… molte volte mi trovo a sentire, a dovere fare, determinate porcherie che a me mi viene il freddo!”.

A cosa si riferiva con il termine “porcherie”, Zumbo non lo ha mai spiegato. Interrogato dalla Dda, però, ha ammesso di essere dei servizi, di aver collaborato con l’ex responsabile del Sismi di Reggio Calabria Corrado D’Antoni e di aver “incontrato l’ex funzionario Mancini che scese a Reggio Calabria”. Ma Zumbo non ha voluto dire quando si è visto con il numero due del Sismi. D’Antoni la colloca tra il dicembre 2004 e i primi mesi del 2005. La data orientativa, però, si ricava dalla testimonianza di un maresciallo della guardia di finanza con il quale il commercialista Zumbo aveva parlato del suo incontro con Marco Mancini: “È avvenuto qualche giorno prima o lo stesso giorno in cui è stata rinvenuta la bomba al Comune di Reggio. Mi ha detto di essere a conoscenza dell’intervento dei servizi”.

Se questo è vero, allora, Mancini si trovava in riva allo Stretto prima del 6 ottobre 2004 quando il Sismi segnalò all’ex questore Vincenzo Speranza il tritolo piazzato nei bagni di Palazzo San Giorgio. Una “pagliacciata” che, stando a quanto sostengono i pm, era necessaria alla sopravvivenza di quell’enorme “laboratorio criminale” che era la città dello Stretto dove i “riservati” della ‘ndrangheta Paolo Romeo (per il quale sono stati chiesti 28 anni di carcere) e Giorgio De Stefano (già condannato in Appello con il rito abbreviato) hanno scelto “i soggetti giusti da utilizzare per entrare nei gangli decisionali delle strutture amministrative”. Soggetti “funzionali allo scopo” come l’indagato Scopelliti ma anche come i due politici imputati, l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra e il senatore Antonio Caridi per i quali il procuratore Giovanni Bombardieri ha chiesto 20 anni di reclusione. Stando alla ricostruzione della Dda, in quegli anni era Paolo Romeo la “testa pensante” della ‘ndrangheta “che compone le liste, individua candidati, fissa strategie e garantisce i programmi”. L’obiettivo, secondo la Procura, era la pioggia di milioni di euro che sarebbero piovuti, dal 2002 al 2010, sulla città. “Un enorme flusso di denaro che doveva essere messo a sistema” attraverso “le società miste, il decreto Reggio e il controllo di settori strategici”. Un progetto criminale ed eversivo che, senza il finto attentato al Comune, era destinato, questo si, a deflagrare.