LA PICCOLA CONFORMISTA - 3/5
Poi capita che ti fai una risata a voce alta e chi è intorno a te ti guardi stupito. La piccola conformista (Sellerio), opera prima della giornalista/documentarista francese Ingrid Seyman, ha il sacro dono dell’ironia puntuta, senza inibizioni, franca, dovuta al classico punto di vista della bambina che osserva i propri familiari. Qui coppia hippie piccolo borghese, madre atea e sessantottina, padre di origine ebrea algerina nella Marsiglia di fine settanta inizio ottanta, nel tentativo di scalata sociale da benessere acquisito senza perdere l’anticonformismo di “sinistra” che avrebbe dovuto rivoluzionare il mondo (c’è Mitterand presidente della repubblica, per dire). Esther Dahan guarda dal basso le idiosincrasie zeppe di terrore antiebraico e regoline casalinghe di babbo (voleva essere poeta e chansonnier ribelle quando fa invece strada in banca), la sbrigatività distratta e impegnata di mamma, i nonni pied-noir con la sacra terra algerina nell’urna in salotto, e Jeremy fratellino un po’ ritardato con occhio bendato e una spiccata attitudine a distruggere tutto. L’io narrante è brioso, esilarante, irrefrenabile: attraversa l’esperienza della prestigiosa scuola cattolica e la comunione fortemente voluta tra lo sgomento familiare, si imbatte nella crescita e nella trasformazione del proprio corpo (l’ossessione per i peli pubici femminili), ma è nell’osservazione che Esther getta attorno a sé, oltre la cortina auto celebrativa dell’anticonformismo familiare che il testo si tinge di amaro disincanto socio-politico. Le etichette ideologiche fanno a pugni con il reale. Il caos psicologico del privato sovverte ogni apparenza pubblica. E la tragedia irrompe improvvisa, tagliente, brusca, come un romanzo di formazione serissimo. Voto (conformista): 7e ½