Fino al suo arresto, lo scorso ottobre, quando i carabinieri lo hanno sorpreso in flagranza di reato a chiedere il pizzo a un imprenditore, Pasquale Zagari si spacciava come un soggetto che aveva chiuso con il suo passato criminale. Già ergastolano poi diventato collaboratore di giustizia, il boss di Taurianova non ha mai spezzato il suo legame con la ‘ndrangheta nonostante l’apparente percorso di “riabilitazione sociale” che lo ha visto partecipare addirittura a dibattiti, convegni e incontri come testimone di redenzione e contro l’ergastolo ostativo. È lui il principale indagato dell’inchiesta “Spes contra spem” coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci e dal sostituto della Dda Giulia Pantano. Il blitz è scattato stamattina all’alba quando i carabinieri hanno arrestato 11 persone. Dieci di queste sono state raggiunte da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip Tommasina Cotroneo. Un indagato, invece, è finito ai domiciliari mentre altri quattro sono stati denunciati a piede libero.
Da vecchio ‘ndranghetista, stando alle indagini, il boss ha tentato di ristabilire il controllo del suo territorio. E lo ha fatto evocando esplicitamente la sua capacità di risolvere i problemi con la violenza e soprattutto i morti della faida di Taurianova che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ha trasformato il paesino della Piana di Gioia Tauro in una sorta di far west. Di quella faida Pasquale Zagari è stato uno dei più violenti protagonisti. Dopo l’omicidio del padre, Rocco Zagari, ammazzato all’interno di un salone da barba, ci fu la cosiddetta “strage del venerdì nero” di Taurianova in cui furono uccise per vendetta quattro persone, di cui una con la testa mozzata, in pieno centro cittadino. Condannato all’ergastolo per la mattanza di quel periodo, la pena poi gli era stata rideterminata in 30 anni di reclusione, conclusi con un periodo di sorveglianza speciale nel Nord Italia.
La pericolosità di Zagari è dimostrata da un violento tentativo di evasione nel 2009, quando trascorsi 21 anni di carcere, non si fece scrupoli a sparare con un’arma da fuoco contro i poliziotti di scorta che lo stavano trasferendo dalla casa circondariale in cui era detenuto a un’altra. Dopo quell’episodio, Pasquale Zagari iniziò addirittura un percorso di collaborazione con la giustizia. Davanti al sostituto procuratore della Dda Roberto Di Palma, il boss si è sempre dichiarato innocente. “Ho trascorso tutti questi anni in carcere, – erano state le sue parole – del processo che io mi vedo condannato all’ergastolo, sono innocente. Quel gesto che ho fatto è stato un gesto disperato… cercavo di evadere perché pensavo che così facendo magari, che ne so, potevo dimostrare meglio la mia innocenza”. Nel corso della sua collaborazione con i magistrati, il boss ha negato di aver partecipato alla “strage del venerdì nero” ma, allo stesso tempo, ha confessato di avere commesso diversi omicidi di ‘ndrangheta.
Nel febbraio 2020 Pasquale Zagari aveva finito di pagare il suo conto con la giustizia ed era ritornato a Taurianova. Partecipava alle presentazioni dei libri, organizzate dai Radicali di “Nessuno tocchi Caino”, in cui ammetteva di avere “le mani intrise di sangue” e di aver capito gli errori che aveva commesso. “La cosa che mi rende ancora più libero di aver capito gli errori commessi – diceva – Ho avuto un sussulto dentro di me. Spero e veramente e credo che la Calabria e le nostre terre sono cambiate”. E intanto, però, a un imprenditore di Taurianova diceva: “Tu non vuoi bene ai tuoi figli. Perché se muori vuoi bene ai tuoi figli?”. “E perché mi ammazzi tu?”. “Se mi fai girare i coglioni! Perché no?”. Le indagini della Dda hanno dimostrato infatti, che stava riallacciando i rapporti di un tempo e ha preso il posto dei suoi due fratelli detenuti Giuseppe e Carmelo Zagari. Il primo è un ergastolano con sentenza definitiva mentre il secondo è stato condannato dalla Corte di Appello di Reggio Calabria nel processo “Terramara Closed”.
Avvalendosi della fattiva collaborazione di partecipi e gregari, come Francesco Avati, Antonio Alessi e Rocco Leva (anche loro arrestati stamattina), il boss Pasquale Zagari era tornato nel suo paese di origine. Lo ha fatto da capo e reggente. Era lui il referente mafioso per la risoluzione di qualsivoglia questione, anche privata. Ha ripreso a pretendere il pizzo e da storico ‘ndranghetista ha offerto e imposto la sua protezione mafiosa, non richiesta, alle vittime. Per questo motivo, nell’ottobre 2020 dopo appena 8 mesi di libertà, è stato arrestato in flagranza di reato dai carabinieri di Taurianova. Qualche giorno dopo, in un’intercettazione, gli investigatori hanno sentito il suo uomo di fiducia Francesco Avati progettare l’evasione: “Credimi io non dormo la notte ho una pena nel cuore per lui.. non so che posso fare. Gli metto una bomba al carcere per tirarlo da là dentro”. Imprenditori e cittadini erano costretti a pagare il pizzo per rafforzare la cosca di appartenenza e per il mantenimento dei detenuti. Secondo i pm, Zagari decideva anche il respiro delle persone: si è intromesso nella compravendita di terreni, chiedendo somme di denaro non dovute per autorizzare l’acquisto o comunque coartando la loro volontà nelle scelte imprenditoriali e private, in favore di altri soggetti a lui vicini.
Su richiesta della Procura, il gip Cotroneo ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare anche per Domenico Avignone, figlio dello storico boss di Taurianova Giuseppe Avignone, già condannato all’ergastolo e protagonista dalle Strage di Razzà del 1977, quando furono trucidati i carabinieri Stefano Condello e Vincenzo Caruso. Al momento ricercato e anche lui già condannato per ‘ndrangheta, Domenico Avignone offriva “protezione” non richiesta nei confronti di alcuni imprenditori, risolvendo loro problematiche emergenti o rassicurandoli per lo svolgimento “in sicurezza” del loro lavoro. Le cosche avevano anche diverse armi pronte per essere utilizzate. Durante le indagini, infatti, i carabinieri hanno trovato e sequestrato due fucili mitragliatori “Zastava”, armi da guerra, un fucile “Sauer” calibro 12 “Beretta” con matricola punzonata, numerose munizioni di vario calibro, due giubbotti antiproiettile, nonché una bomba a mano da guerra modello “m53 p3” di provenienza slava.
Secondo il procuratore Giovanni Bombardieri, “è emersa una realtà di pressioni intimidatorie ‘ndranghetiste che il gip ha riconosciuto ed ha riferito anche a soggetti dal rilievo criminale di Pasquale Zagari che, come lo stesso gip scrive, ‘al di là degli slogan utilizzati per nulla è cambiato. Quanto accertato nel corso delle indagini, infatti – prosegue – contrasta radicalmente con l’immagine che l’indagato voleva offrire di sé anche tramite i social, e addirittura partecipando a convegni in cui Zagari affermava che il suo era stato un percorso rieducativo che lo aveva condotto ad essere persona diversa da un tempo. In realtà le modalità con cui avvicinava le vittime così come l’evocazione degli anni ’90 e al periodo in cui era ‘giovanottino’, sono tutti chiari elementi circa l’atteggiamento finalizzato al controllo del territorio ed alla affermazione del proprio ruolo criminale sullo stesso”.