Giugno è il mese dei sogni infranti e degli anniversari trascorsi invano. Storie di ragazzi, della meglio gioventù egiziana costretta a pagare per colpe mai commesse e con davanti mesi, anni di buio e sofferenza. Tra pochi giorni Patrick Zaki spegnerà le sue 30 candeline rinchiuso in una cella fetida della terribile prigione di Tora, al Cairo; proprio negli stessi giorni un suo connazionale e, a tutti gli effetti, collega, Ahmed Samir Santawy, imprigionato dal febbraio scorso in un’altra ala dello stesso penitenziario, a pochi metri da Zaki, avrebbe dovuto sposarsi. I piani erano chiari: “Entrambi avremmo terminato il nostro percorso di studi nelle rispettive sedi universitarie e a quel punto ci saremmo sposati. I master terminavano proprio in questi giorni e la cerimonia era stata fissata subito dopo. Purtroppo è tutto svanito, per ora”.
Souheila Yildiz, 31 anni, è la fidanzata di Ahmed Samir Santawy che di anni ne ha 29; di padre turco e di madre belga, Souheila vive a Gent, la sua città natale nelle Fiandre, ma ha trascorso metà della sua vita proprio al Cairo. I due si sono conosciuti e hanno iniziato a frequentarsi proprio in Egitto per poi proseguire il rapporto a distanza in Europa: lei in Belgio dove, dopo la laurea, oggi è alle prese con un Master in studi islamici e lingua araba, lui a Vienna alla Central European University (Ceu) dove stava seguendo il suo corso di ricerca in sociologia e antropologia sociale con focus particolare sull’aborto. Le analogie tra le storie di Patrick e Ahmed Samir sono numerose e vanno oltre la carte d’identità e il percorso universitario compiuto parzialmente in Europa, abbracciando anche la sorte attuale.
“Ahmed Samir è rientrato in Egitto a gennaio durante una pausa del suo dottorato di ricerca a Vienna – racconta Souheila Yildiz – e io l’avrei raggiunto proprio il 1° febbraio. Saremmo stati una settimana al Cairo per poi tornare in Belgio e in Austria. Quel giorno io sono atterrata ad Alessandria d’Egitto e ci dovevamo incontrare al Cairo, ma non ci siamo mai riusciti. Da mezzogiorno, quando lui è entrato nella stazione di polizia (a New Cairo, ndr.) e quando il mio aereo ha toccato il suolo egiziano, lui è scomparso per alcuni giorni prima di ridare segni di vita dentro il carcere di Tora”.
Curiosa la modalità con cui lo studente della Ceu è stato arrestato. Nei giorni precedenti la National Security, la famigerata struttura di polizia al servizio del regime, lo aveva cercato a casa, ma Santawy stava trascorrendo alcuni giorni di riposo a Dahab, sul Mar Rosso. Quando è rientrato al Cairo lo hanno convocato per il 1° febbraio in caserma, ma non sembrava nulla di serio tanto che a Souheila la stessa mattina, mentre lei si stava imbarcando, aveva detto: “È una formalità, tranquilla, ci vediamo tra poche ore”. A Patrick Zaki l’8 febbraio del 2020 è andata in maniera diversa: il tempo di atterrare al Cairo International Airport e di lui si sono perse le tracce, per poi ricomparire, due giorni dopo, in tribunale a Mansoura, città natale degli Zaki a nord del Cairo. Su Patrick e sul clamore suscitato dal suo arresto Souheila racconta un particolare molto importante: “Quanto accaduto a Zaki ha fatto il giro nelle realtà accademiche internazionali – racconta la ragazza -, tra cui Vienna. Ahmed Samir era rimasto molto colpito all’epoca. I due si conoscevano, non in maniera approfondita, ma ognuno sapeva dell’altro, in fondo in Egitto si erano occupati di studi e di attività simili. Ahmed Samir ha partecipato e organizzato alcune iniziative di solidarietà nei confronti di Patrick Zaki a Vienna. Difficile dire se questa sua attività in Austria pro-Zaki possa aver influito sul suo arresto una volta rientrato in patria, ma il sospetto effettivamente c’è. Del resto, viste le accuse fantasiose e le prove in mano agli inquirenti, un pugno di post su Facebook, è difficile stabilire il motivo di tanto accanimento nei suoi confronti. Nulla di più di 3 screenshot in cui Ahmed Samir criticava, senza eccedere, la gestione della pandemia in Egitto”.
E di accanimento si deve parlare nei confronti di Santawy la cui detenzione ha subìto uno strappo, un upgrade: “Le cose sono cambiate dal 22 maggio scorso – aggiunge la sua fidanzata – quando la Procura egiziana gli ha affibbiato una nuova accusa. I due capi di imputazione sono pressoché identici, ci sono le solite accuse ossia di far parte di un gruppo terroristico senza ovviamente dire quale e di aver diffuso notizie false. Una questione di numeri, sta di fatto che da quel giorno la sua detenzione è peggiorata. Lo hanno trasferito nella stessa sezione dei detenuti politici, quella più dura, dove si trovano personaggi come Alaa Abdel Fattah (il leader delle proteste di Tahrir nel 2011, fratello di Sana Seif, in cella nel carcere femminile di Qanater, e di Mona, ndr.). Da allora in cella niente materasso e acqua calda, nessuna possibilità di ricevere cibo, soldi, vestiti, libri e giornali e di poter essere visitato dalla sua famiglia. Nel giorno del suo nono rinnovo della detenzione Ahmed Samir ha denunciato una pesante aggressione da parte delle guardie carcerarie (compreso il vicedirettore della struttura secondo le accuse del suo avvocato, ndr.). Lui e il compagno di cella (l’ex deputato Ziad al-Alimi, ndr.) volevano portare un saluto ad un detenuto della sezione a cui era appena morto il padre. In cambio hanno ottenuto le botte”.
I mesi passano e la sorte di Ahmed Samir, come quella di Patrick, sembra affidata ad un destino segnato da una lunga ed ingiusta detenzione. Le settimane ed i mesi si accumulano e Souheila non vede e non parla col fidanzato da oltre cinque mesi: “Non essendo ancora sposati non potrei ottenere il permesso di fargli visita in carcere. Ho fatto formale richiesta al governo belga di poter intercedere con le rispettive ambasciate per ottenere un permesso speciale, a quel punto partirei subito per il Cairo. Nel frattempo ho momentaneamente rallentato gli studi per portare avanti un progetto del cuore. Ahmed ama scrivere racconti e io per ognuno di questi sto realizzando dei disegni: diventerà un libro”.