Da sempre, la manipolazione del linguaggio è un vizio praticato dall’élite governative ed economiche del nostro paese. Isola ecologica o ecostazione altro non è che un waste sorting plant, secondo la letteratura internazionale; e il termovalorizzatore è semplicemente un incinerator, un incinérateur de déchets, un müllverbrennungsanlage, una planta incineradora. Basta Wikipedia per toccare con mano come termovalorizzatore e isola ecologica non trovino alcuna corrispondenza in altre lingue.
Assieme a bombe d’acqua e grandi opere, termovalorizzatore ed ecostazione sono invenzioni destinate ad abbagliare la pubblica opinione in tema di scelte tecnologiche e politiche potenzialmente discutibili, partendo all’assioma che la gente sia assimilabile a una plebe ignorante, disattenta, un po’ citrulla. Se da 40 anni la manipolazione semantica ha successo in Italia, perché non adottarla anche altrove? Il vizio si sta perciò allargando a tutto il mondo avanzato.
Nei piani nazionali e sovra-nazionali di ripresa economica e sociale dopo la pandemia – peraltro, a lavori tuttora in corso a scala globale – la transizione ecologica per contenere il riscaldamento globale è una medaglia che ogni governo si è già appuntata fieramente sul petto. Un brand di sicuro fascino, destinato, per esempio, a invertire l’irreversibile crisi di saturazione dell’industria automobilistica nelle nazioni del G7, prima di tutto. E dell’impatto ambientale se ne riparlerà quando ci saranno da smaltire chilometri cubi di batterie esauste.
Nel corso del prossimo G7, ospitato in Cornovaglia nella prima metà di giugno, tutti i governi esporranno sul petto una fila di medaglie della sostenibilità ambientale da far impallidire il generale Kulikov nella tomba. Dopo la pandemia, il brand della sostenibilità ambientale è una bandiera largamente condivisa. Stiamo facendo per davvero questo grande sforzo? Ci sarà realmente questo balzo in avanti? Secondo una indagine di Tearfund, la realtà deraglia dalle rotaie delle belle parole.
Secondo Tearfund, dall’inizio della pandemia – e nonostante gli impegni collettivi a “ricostruire meglio” – le nazioni del G7 hanno pompato più soldi nei combustibili fossili che nell’energia pulita. Le scelte che i paesi del G7 faranno quest’anno avranno un impatto esiziale sulla direzione e il verso che prenderà l’economia globale nei prossimi lustri. In queste sette nazioni, che sono tra i paesi più inquinanti al mondo, vive solo il dieci per cento della popolazione mondiale. Ma il G7 produce oltre il 24 per cento delle emissioni di CO2.
Il rapporto di Tearfund esamina tutti i nuovi aiuti di Stato ai settori ad alta intensità energetica, che sono stati approvati tra gennaio 2020 e marzo 2021 dalle nazioni del G7 e dagli altri partecipanti al prossimo vertice. Tearfund ha valutato il contributo di queste politiche a una migliore ricostruzione e, in particolare, al loro impatto sulla mitigazione climatica, usando i dati dell’Energy Policy Tracker2, integrati da altri strumenti di monitoraggio. Il risultato non conforta chi confida in una effettiva transizione ecologica. In breve, le nazioni del G7 hanno sovvenzionato con oltre 189 miliardi di dollari la produzione e il consumo di combustibili fossili, mentre all’energia pulita sono stati destinati solo 147 miliardi di dollari.
Nel momento in cui è necessaria e urgente una riduzione delle emissioni, la ripresa post-pandemica del G7 innescherà la transizione verso società più pulite ed eque o bloccherà il pianeta in un cambiamento climatico catastrofico e irreversibile? “Build back better from coronavirus and create a greener, more prosperous future”: il futuro più verde è lo slogan del prossimo G7, bene in mostra sulla pagina web dedicata. A scala globale, le emissioni antropiche di biossido di carbonio legate all’energia pesano per circa tre quarti del totale. È evidente che bisogna intervenire sulla filiera energetica. Senza incidere profondamente sulla produzione e l’uso dell’energia, il futuro verde resta solo un miraggio e la prosperità una incognita.
Chi auspica un futuro in armonia con l’ambiente deve fare attenzione al linguaggio. Esso non soltanto riflette il controllo sociale “ma diventa pur esso uno strumento di controllo, anche là dove non trasmette ordini ma informazioni, dove non chiede obbedienza ma scelta, non sottomissione ma libertà” (Marcuse, H., L’uomo a una dimensione, Boston: Beacon Press, 1964).
“Basta la parola!” fu un mitico ed efficace slogan agli albori del Carosello alla fine degli anni ‘50 del secolo scorso. In questo fortunatissimo spot pubblicitario della Rai, il grande comico milanese Tino Scotti reclamizzava un noto lassativo. Per mitigare il riscaldamento globale le parole non bastano.