La macchina da presa di Gillespie corre, proprio fisicamente, fende, apre, disegna lunghe rapide, ripide, traiettorie di corsa, fuga in interni/esterni che Variety ha paragonato ad una performance stilistica alla Scorsese
Per vedere Crudelia di Craig Gillespie c’è bisogno di allacciarsi le cinture di sicurezza. Torni in sala dopo mesi (anni, sembrano secoli) e ti ritrovi questa spiritosa, acidula delizia punkeggiante che rotola gioiosa e svelta ovunque sullo schermo, tra le poltroncine della sala, nella memoria di una tradizione poetica Disney che sembra qui, in una brumosa Londra anni settanta bombetta, ombrello e Sex Pistols, definitivamente tramontata. Colpisce l’occhio subito il contesto Lemony Snicket iniziale con la protagonista Estella, da piccina non inquadrabile socialmente a menar fendenti ai compagni di classe, capello già bicolore bianco e nero, l’insopprimibile idea di diventare stilista, in fuga con mamma fino al promontorio a picco sul mare dove tre dalmata assassini fanno diventare orfana la piccola protagonista con cagnetto Buddy al seguito. Poi ecco l’inserto londinese che inizia, molto più dickensiano di quanto si possa intravedere, con Estella adolescente (già, finalmente, Emma Stone) che incontra due orfanelli – Jasper (Joel Fry) e Horace (Paul Walter Hauser) – prima Simpatiche Canaglie (la citazione dello splendido can-topo con benda sull’occhio arriva da lì) poi molto Stanlio e Ollio, tutti a compiere furtarelli ben organizzati, sopravvivenza bohemienne ladruncola lassù sui tetti diroccati. Fino a quando Jasper “regala” a Estella un lavoro nella prestigiosa e austera atelier/boutique del centro: invece di ideare abiti o venderli da commessa, dovrà pulire cessi, scale, uffici e vetrine del superstore.
Ca va sans dire, Estella ubriaca nel turno di notte si addormenta tra i manichini dopo aver involontariamente rivoluzionato la vetrina in mostra per i passanti con scritte sulle pareti, sbaffi di colore e abiti sbrindellati. Scandalo? Macché. Promozione alla corte creativa del boss, la Baronessa (Emma Thompson – stato di grazia? sì). Cinica, spietata, quasi infame figura apicale del capitalismo haute couture che con Estella ha un sotterraneo e devastante conto in sospeso tra vita e morte, tra potere economico di mercato e tassa di successione del settore sotto i riflettori della moda. Inutile aggiungere che la ragazza ha talento per il taglia e cuci, e che tra le due, nonostante il fare dittatoriale, impositivo, vampiresco della Baronessa (fate finta di vedere una Miranda Prestley al cubo), non si sa bene chi, con ogni mezzo, con ogni trovata da doppio mascherata di nuova regina della moda (Cruella), dovrà soccombere. Ti fermi quindi a guardare l’orologio e siamo a quasi un’ora e mezza di film. Niente. Non te ne accorgi. Sembrano passati venti minuti. La macchina da presa di Gillespie (Tonya; Lars e una ragazza tutta sua) corre, proprio fisicamente, fende, apre, disegna lunghe rapide, ripide, traiettorie di corsa, fuga in interni/esterni che Variety ha paragonato ad una performance stilistica alla Scorsese.
Ritmo altissimo, recitazione ferocemente spigliata, trucco e parrucco swinging steampunk (Fiona Crombie, Jenny Beavan, Tom Davies) che urla voglia di esplodere e cristallizzarsi nello sguardo dello spettatore, gragnola di brani musicali soul rock (Rolling Stones, Deep Purple, Tina Turner, Black Sabbath, Queen, Nina Simone) fusi con la gestualità e l’azione soprattutto di Estella, diaframmi di senso comune che infine si incrinano gradualmente verso l’apice dello scontro (superhero movie? Sì, anche) tra Baronessa e Cruella/Estella spettacolarizzato in vis a vis in mezzo a centinaia di invitati, giornalisti, fotografi in défilé che sfonda in mezzo alla strada (la performance con strascico di tulle con dieci metri di rifiuti è straordinaria), live rock nel parco a distruggere le fondamenta della tradizione. Questo perché Estella/Cruella è un joker vendicativo sì, ma anche eroina antisistema.
Così mentre la Thompson deve scavare a fondo sulla stessa monodimensionale lunghezza d’onda della malvagità propria del villain, è la Stone che in quanto “buono” recita pervicacemente e signorilmente due personaggi, double face caratteriale e significante, doppio seducente innocente: qua con frangetta e occhialetti, là con bulbo speculare e mascherina occhi di gatto sul naso. Inciso: la presenza canina. Che, in tutti gli episodi cinematografici del franchise Disney affacciato sul testo di Dodie Smith, risultavano appendice appesa scatenante per solleticare le vicende umane (rapimento, sparizione, riapparizione dei dalmata), mentre nel film di Gillespie – script di Dana Fox e Tony McNamara – diventa interazione spalla a zampa nell’agire quotidiano dei protagonisti oltre alla mancanza possibile della spettacolarizzazione di qualsivoglia dolore, perdita, squilibrio. Infine, Crudelia sta dove in fondo deve stare, in questa Londra anni settanta un po’ sporchina, un po’ ribelle, fascinosa e basculante tra conformismo di facciata e anticonformismo in controluce. Imperdibili i primi tre-quattro minuti di titoli di coda dove scopriamo che Crudelia è addirittura prequel de La Carica dei 101 quando tutto sembrava propendere per il reboot ex-novo. Già in pre-produzione Crudelia 2.