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Elezioni in Perù: i fantasmi del passato minacciano di tornare

La memoria storica è il tallone d’Achille dei popoli. E anche il Perù conferma questa tara millenaria.

Al momento in cui scrivo, Pedro Castillo, sconosciuto maestro di scuola fino a qualche mese fa, ora leader del partito filo-castrista Perù Libre, è in testa negli scrutini, pur se con un risicatissimo margine: 50,2% contro il 49,8% della candidata del partito conservatore Fuerza Popular. Keiko Fujimori, figlia di Alberto – ex capo di Stato peruviano pluricondannato per crimini contro l’umanità e corruzione – si posiziona a ridosso di Castillo, pur rimanendo accreditata all’estero per la vittoria finale. Castillo invece punta sul risultato favorevole delle schede scrutinate, arrivate da poco dalle aree rurali e dalla zona selvatica, la più remota del Paese, ma anche quella dove i consensi per Perù Libre sovrasterebbero lo schieramento rivale. A tal riguardo, la figlia di Fujimori ha già presentato denuncia di frode per i ritardi.

Un percorso che riporta alla memoria quello che successe a Morales in Bolivia nella medesima circostanza. Keiko potrebbe bilanciare il voto a sinistra delle zone rurali – oltre ad ottenere la maggioranza nelle città grazie alla classe media urbana da sempre avversa al comunismo o presunto tale – attingendo nel nutrito bacino dei peruviani che lavorano all’estero, storicamente legato a Fujimori. Tuttavia i voti di costoro saranno conteggiati per ultimi.

La borghesia locale rimane lo zoccolo duro di Fuerza: vede come fumo negli occhi un’alzata di testa della working class, schiacciata come sempre da analfabetismo, miseria, e, per non farsi mancare niente, dalla recrudescenza del Covid, che allo stato attuale registra due milioni di casi su una popolazione di 32. I decessi al momento sono 186.511 cioè quasi il 10% dei contagiati. Un indice di mortalità pro capite al vertice della scala pandemica mondiale.

Corruzione e squadre della morte

Per rammentare il fulgido percorso del papà di Keiko, al secolo Alberto Kenya Fujimori Inomoto, basta ripercorrere le tappe essenziali del suo cammino:

1) 1991: dopo un anno di governo, nella fase cruciale della guerra condotta contro la fazione maoista di Sendero Luminoso, Fujimori ordinò allo squadrone della morte di Grupo Colina una serie di rappresaglie contro i barrios accusati di coprire e nascondere i guerriglieri. Vennero massacrate 34 persone in totale, negli slum di Barrios Altos, Santa e La Cantuta, tra cui un bambino di otto anni e altri minorenni. Gli assassini furono poi arrestati, e successivamente amnistiati dal governo peruviano, dopo che Fujimori aveva fatto varare una legge speciale che concedeva completa immunità a membri delle forze speciali e dell’esercito che avessero ucciso civili durante l’esercizio delle loro funzioni;

2) 1996 -2000: il governo peruviano condusse in quegli anni una massiccia campagna di sterilizzazione forzata nei confronti della comunità indigena, nominata ipocritamente “Contraccezione Chirurgica Volontaria”. Furono complici di questa operazione vergognosa le cosiddette organizzazioni umanitarie di Usaid, statunitense, e Nippon Foundation, giapponese, il cui capo era amico personale di Fujimori. In quattro anni, vennero abusivamente sterilizzate 215.000 donne e 16.547 uomini furono vasectomizzati. La maggioranza degli interventi venne eseguita senza alcuna anestesia;

3) 1996: in seguito al sequestro da parte del gruppo terrorista Túpac Amaru di vari diplomatici e uomini d’affari riunitisi all’ambasciata del Giappone di Lima per il compleanno dell’imperatore, le forze speciali irruppero dopo 126 giorni di trattative, liberando tutti gli ostaggi: 14 guerriglieri vennero uccisi, molti con esecuzioni sommarie dopo essersi arresi.

Fujimori lasciò precipitosamente la presidenza nel 2000 rifugiandosi in Giappone, a cui il governo peruviano inoltrò richiesta di estradizione sia per le sottrazioni di denaro pubblico che avevano contraddistinto i suoi mandati – tra le quali i compensi per le squadre della morte – sia per le stragi perpetrate. Estradato nel 2007, fu condannato a 6 anni per corruzione, e nel 2009 a 25 anni per i massacri del Grupo Colina. Sentenze che la Corte Suprema ribadì nel 2019 tal quali dopo la temporanea amnistia concessa dal presidente Kuczynski nel 2017.

Va detto che Fujimori dovette fronteggiare fin dall’inizio la guerriglia sanguinosa condotta senza quartiere sul territorio peruviano da Sendero Luminoso e dai Túpac Amaru, che causò oltre 70.000 vittime tra attentati dinamitardi, spedizioni punitive e scontri armati con l’esercito; le ultime, cadute proprio pochi giorni fa quando un commando ha sterminato tre famiglie, bambini compresi, nel villaggio di San Miguel: 16 persone assassinate. Sendero Luminoso, pur dopo la cattura di tutti i suoi leader negli anni ’90, rimane in attività, autofinanziandosi con il traffico di cocaina.

Inutile dire che questi atti isolati di terrorismo soffiano sul fuoco della campagna elettorale, portando ettolitri di acqua al mulino di Keiko Fujimori, che ha così gioco facile nell’aumentare i suoi consensi. Complice la paura non solo della classe media e degli stranieri, ma anche di tanti elettori dei ceti bassi, che temono il ritorno delle stragi passate, essendo consapevoli che in quel malaugurato caso sarebbero i primi a rimetterci le penne.

Epilogo

Anche questa tornata elettorale è stata caratterizzata finora da una bassa percentuale di votanti effettivi. Nessuno dei due candidati ha un programma attendibile, ed entrambi spaventano quella larga maggioranza degli elettori che ha preferito astenersi.

Castillo, a capo di un partito che si proclama marxista-leninista e gode dell’appoggio palese di Cuba, oscilla tra le minacce di nazionalizzare gli assetti produttivi e le rassicurazioni poco credibili sul rispetto della proprietà privata. Oltretutto, la recente carneficina perpetrata dal sedicente redivivo Sendero Luminoso, che sia opera o meno del gruppo maoista, terrorizza l’uomo della strada, che paventa gli incubi del passato.

Keiko, dal canto suo, ha già ricalcato le orme paterne: dovrà affrontare un difficile processo con l’accusa di riciclaggio per 17 milioni di dollari, e rischia una condanna a 31 anni. Ha dovuto richiedere una dispensa speciale dal tribunale per poter estendere la sua campagna elettorale fuori da Lima. Solamente se vincesse le presidenziali otterrebbe una proroga processuale che scadrebbe alla fine del suo eventuale mandato nel 2026. Per cui tutte le promesse che sciorina adesso valgono meno di zero. Così come l’impegno di proseguire, una volta eletta, la lotta alla corruzione. D’altra parte si è già sbilanciata dicendo che in caso di vittoria annuncerà un’amnistia per scarcerare il padre ultraottantenne. Per cui il suo unico interesse è vincere. Per farla franca.