Il prossimo cambio del vertice della Rai ha alimentato una serie di interventi sulle prospettive dell’azienda pubblica. Gran parte degli osservatori ritengono che sia difficile recidere il controllo della politica sull’azienda, anche se il problema principale, sottolineato da Aldo Grasso, “è il clientelismo: le forze politiche al governo, infatti, tendono a distribuire a propri simpatizzanti (spesso non all’altezza del compito) la titolarità di incarichi pubblici”. Problema che si accentua quando non sono chiari, nell’era del nuovo ecosistema mediale, le finalità e gli strumenti che la Rai dovrebbe perseguire, al punto che la parola “servizio pubblico” appare ai più vuota di significati.
Proviamo, con l’ausilio dei numeri, a descrivere la situazione.

Da rilevare inizialmente che la Rai vince da sempre negli ascolti. Un dato significativo se rapportato ai suoi punti di forza, come le fiction, i programmi di storia, il programma Maestri, le inchieste di Iannaccone e di Iacona, tanto per citare alcune “perle”. Ma la vetta degli ascolti è ottenuta grazie ad una programmazione che, secondo i critici, non si discosta da quella delle reti commerciali.

Va ricordato inoltre che il pubblico della Rai è vecchio, l’ascoltatore medio delle reti generaliste ha un’età prossima a 60 anni. Non a caso gli ascolti della fascia d’età 25-54 anni, vedono la Rai soccombere a Mediaset. Pur con questi limiti, la supremazia della Rai (aiutata dalla mancanza di alternative valide) è un indice di apprezzamento del pubblico da sottolineare: tante le polemiche nel caso la Rai dovesse essere perdente!

I ricavi della Rai sono diminuiti negli ultimi dieci anni di -14%, in linea con tutte le imprese media, mentre il personale è diminuito -4%. La Rai non ha scelto, dalla rottura del monopolio, se continuare a privilegiare l’autoproduzione oppure l’acquisto di format e programmi dall’esterno. Le due opzioni hanno difficoltà a coesistere se si massimizza l’una o l’altra: se ci si avvale in prevalenza, come è nelle tendenze di mercato, delle società esterne (rischiando di essere “prigionieri” delle stesse) si deve nel contempo rimodulare il personale interno. La mancata scelta potrebbe creare seri problemi gestionali.

Il confronto fra Rai e Mediaset non può che essere del tutto indicativo essendo due realtà diverse; pur con questa premessa la questione della produttività risalta immediatamente (il personale del gruppo Mediaset ammonta a 4984 unità). Il peso del costo del lavoro è pari al 39% dei costi per Rai, mentre per Mediaset è il 17% (meno della metà). Le Tv commerciali privilegiano l’outsourcing, una scelta conveniente economicamente e spesso di maggiore qualità. La creatività ha difficoltà ad affermarsi nelle grandi company, mentre è più facile che si realizzi nelle piccole e medie factory.

Il confronto più pertinente è con il servizio pubblico francese. France Télévision ha un personale di 9456 unità, raggiunge il 29% circa di share, mentre il canone unitario è pari a 139€ (in Italia ammonta a 90€). Il servizio pubblico francese ha maggiori risorse, una struttura meno elefantiaca, si basa anch’esso molto sugli acquisti, mentre il finanziamento deriva in prevalenza dal canone, avendo indici pubblicitari più restrittivi.

A quest’ultimo riguardo si segnala che la Rai è il servizio pubblico “più commerciale”: il 32% dei ricavi proviene dalla pubblicità. Con quali conseguenze? Il canone, essendo una tassa, prescinde dalla qualità della programmazione, mentre la pubblicità comporta una programmazione confacente alle esigenze degli inserzionisti, spesso confliggenti con quelle degli utenti del servizio pubblico.

Il nuovo vertice della Rai (in particolare l’amministratore delegato e il presidente) sarà scelto, come sembra, dal premier, ma anche persone serie e capaci rischiano l’impotenza contro un vecchio assetto refrattario al cambiamento.

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