Il gruppo dell'e-commerce ha margini di profitti troppo bassi rispetto a quelli richieste perché i paesi in cui effettua volumi di vendite notevoli possano aumentare le loro pretese fiscali. In generale l'intesa uscita da Londra, che dovrà essere ratificata in luglio, è molto morbida con tutti i colossi del web
“Sono molto contenta degli sviluppi che ci sono stati nell’ultimo G7 dei ministri finanziari, perché in realtà quello che loro hanno deciso, cioè un approccio uniforme alla tassazione delle aziende multinazionali, è quello che noi abbiamo cercato di portare avanti da molto tempo”. Sono le parole con cui Mariangela Marseglia, responsabile per Italia e Spagna di Amazon ha commentato stamane l’accordo raggiunto dai ministri dell’Economia del G7 sull’aliquota globale minima. Marseglia fa bene ad essere contenta. Analizzando i testi, le organizzazioni Fair Tax Foundation, Tax Justice Network e TaxWatch hanno scopeto che il colosso dell’e-commerce potrebbe infatti uscire quasi indenne dal giro di vite fiscale che si vorrebbe applicare alle multinazionali. Proprio Amazon, il cui valore di borsa nell’ultimo anno è passato da 1.200 a 1.600 miliardi di dollari e i cui ricavi sono balzati del 37% a 386 miliardi, grazie anche ai lockdown. Proprio Amazon che è riuscita a non pagare neppure un euro di tasse per la sua controllata lussemburghese dove confluiscono molti degli incassi delle divisioni europee, per un totale di 44 miliardi di euro di ricavi e oltre 2 miliardi di utili.
Il diavolo sta nei dettagli e per capire il motivo per cui Amazon festeggia è necessario spiegare qualche aspetto tecnico dell’accordo. L’intesa, di cui in sede Ocse si discuteva da anni, si basa su due pilastri. Il primo sancisce che il 20% della quota di profitto superiore al 10% dei ricavi diventi soggetto a tassazione nei paesi in cui le aziende operano. Il “secondo pilastro” prevede invece il principio di una aliquota minima globale di almeno il 15% imposta paese per paese, azzerando quindi l’utilità di spostare i profitti nei paradisi fiscali.
E’ al primo pilastro che bisogna prestare più attenzione. Il suo obiettivo è fare in modo che le multinazionali paghino una quota delle tasse nei paesi in cui hanno un elevato volume di vendite, indipendentemente dal fatto che la loro presenza fisica sia modesta. Pensiamo ad esempio a Facebook che in molti paesi europei fattura miliardi pur avendo uffici che si limitano a gestire marketing e parte commerciale. C’è un però. Questo principio si applica solo alle aziende che hanno un margine di profitto superiore al 10%. Il margine di profitto è quello che un’impresa effettivamente guadagna rispetto ai suoi ricavi.
Ci sono settori, ad esempio la moda, dove questo margine è abitualmente molto alto. Altri, come la siderurgia o le auto di fascia bassa, dove i margini sono molto più risicati. Significa che in alcuni settori si guadagna e in altri meno? No, perché gli incassi dipendono anche dai volumi di vendita. Una borsa da 2.000 euro può fruttare tanto ma se ne vendono relativamente poche. Un’acciaieria ha alti costi e guadagna poco su una singola fornitura di prodotto finito ma vende magari 6 milioni di tonnellate.
A differenza di Google, Facebook o Microsoft, Amazon ha strutture fisiche importanti: magazzini, mezzi di trasporto, eserciti dipendenti. Ha costi alti ed è un ibrido tra vecchia e nuova economia . I suoi 20 miliardi ed oltre di profitti realizzati nel 2020 dipendono dal fatto che il volume di vendite è gigantesco (382 miliardi). Il rapporto tra utili e ricavi si ferma però al 6,3%. Sarebbe quindi esclusa dall’obbligo di pagare parte delle tasse nei paesi in cui effettua volumi di vendite consistenti. Come ad esempio l’Italia, dove Amazon ha 40 siti e oltre 10mila dipendenti. Secondo gli studi di Mediobanca il colosso di Jeff Bezos paga nel nostro paese appena 11 milioni di euro di tasse.
Che in generale l’accordo raggiunto a Londra non sia particolarmente punitivo per i colossi del web lo dimostra anche la soddisfazione espressa da Google e Facebook. Si era partiti dalla proposta di un’aliquota minima del 21%, ci si è accordati al 15%, poco al di sopra del prelievo oggi applicato in paesi come l’Irlanda (12,5%). Il gettito a livello europeo che, nel caso di un prelievo del 21%, sarebbe stato di quasi 100 miliardi di euro (7,6 miliardi per l’Italia) con l’asticella abbassata al 15% si riduce a 48 miliardi (2,7 miliardi per l’Italia). Non è molto distante da quel 12,5% di Dublino, dove già oggi molte multinazionali domiciliano le loro attività europee.
L’amministrazione statunitense di Joe Biden ha avuto il merito di sbloccare una trattativa ferma da tempo proprio e soprattutto a causa dell’opposizione degli Usa. Lo schema dell’accordo sembra però molto attento a non penalizzare troppo i colossi statunitensi. Washington ha chiesto anche che, a questo punto, vengano rimosse le web tax approvate autonomamente in paesi come Francia o Italia. Gli Stati Uniti saranno i principali beneficiari dell’introduzione di un’aliquota minima globale.