Sebbene i giudici concordino "con l'accusa" sul fatto che "l'ammontare di denaro non tracciabile, movimentato" sia "una prova indiziaria del carattere genericamente illecito dei pagamenti derivati dai proventi" del blocco petrolifero Opl245, per il Tribunale "non è invece condivisibile l’assunto conclusivo che gran parte di tale somma in contanti, se non tutta, sia finita nella disponibilità dei pubblici ufficiali nigeriani che hanno reso possibile gli accordi illeciti"
A meno di tre mesi dalla sentenza i giudici di Milano hanno depositato le motivazioni del verdetto di assoluzione di tutti gli imputati nel processo Eni Nigeria. Secondo la corte mancano “prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato“. La VII sezione penale del Tribunale di Milano aveva assolto “perché il fatto non sussiste” tutti gli imputati tra le società Eni e Shell, l’ad della compagnia petrolifera italiana Claudio Descalzi e il suo predecessore e attuale presidente del Milan Paolo Scaroni. Per il Tribunale (collegio Tremolada-Gallina-Carboni) non è “condivisibile” la “certezza accusatoria” dell’aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro che “gli attuali imputati si fossero rappresentati e abbiano contribuito” agli “illeciti pagamenti”, di cui c’è una prova solo “indiziaria”.
I 15 imputati erano stati rinviati a giudizio per corruzione internazionale per quella che la Procura aveva definito la più grande tangente mai pagata da una società italiana, ossia 1,092 miliardi di euro. Una ipotizzata mega bustarella nel 2011 legata, per l’accusa, all’acquisizione da parte di Eni e Shell dei diritti di esplorazione del giacimento petrolifero Opl245. Mazzette che, per i pm, erano finite ai politici di Abuja con retrocessioni anche a dirigenti Eni e a coloro che erano ritenuti i mediatori.
Sono stati assolti, oltre ai due colossi dell’energia, l’ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, gli ex manager operativi nel Paese africano Roberto Casula, Ciro Antonio Pagano e Vincenzo Armanna, i presunti intermediari Ednan Agaev, Gianfranco Falcioni e Luigi Bisignani, e l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, titolare, con la Malabu, della licenza sul blocco petrolifero. E ancora la multinazionale olandese, l’allora presedente di Shell Foundation Malcom Brinded e gli ex manager Guy Jonathan Colegate, John Copleston e Peter Robinson. Il verdetto era arrivato dopo tre anni di un dibattimento che si è svolto tra tensioni e colpi di scena, testimoni convocati e mai arrivati in aula o coimputati, in particolare Armanna, che hanno lanciato pesanti accuse e poi ritrattato la loro versione. Una sentenza di assoluzione che ha lasciato strascichi negli uffici giudiziari milanesi. I pm avevano valorizzato pure alcune dichiarazioni rese dall’ex legale esterno della compagnia petrolifera, Piero Amara (arrestato di nuovo ieri), su presunte “interferenze delle difese Eni”, non provate, sul giudice Tremolada. Dichiarazioni che avevano portato ad aprire un fascicolo a Brescia, poi archiviato. Tanto che lo stesso presidente del Tribunale milanese Roberto Bichi si era schierato, a fine marzo, con una lettera a difesa dei suoi giudici. Poi, in una nota congiunta i vertici degli uffici giudiziari di Milano avevano scritto che il “pubblico ministero come organo di giustizia (…) non vince e non perde i processi”.
“All’esito dell’istruttoria non è stato possibile ricostruire con certezza tutti i fatti oggetto dell’imputazione nonostante l’acquisizione di migliaia di documenti e l’esame incrociato di decine di testimoni e consulenti di parte. Alcuni profili della vicenda restano in parte oscuri e possono essere oggetto di ricostruzioni probabilistiche e ipotetiche” scrivono i giudici. Dalla lettura delle condotte specifiche, contestate a Descalzi, manca il riferimento, anche solo nella forma attenuata della consapevolezza, alla condotta tipica della partecipazione agli accordi corruttivi che avrebbero determinato i pubblici ufficiali” della Nigeria come l’ex presidente Goodluck Jonathan e l’ex guardasigilli Adoke Bello, “ad adottare gli accordi transattivi del 29 aprile 2011 in contrasto con la legge nigeriana per favorire le compagnie petrolifere”. Sebbene i giudici concordino “con l’accusa” sul fatto che “l’ammontare di denaro non tracciabile, movimentato” sia “una prova indiziaria del carattere genericamente illecito dei pagamenti derivati dai proventi” del blocco petrolifero Opl245, per il Tribunale “non è invece condivisibile l’assunto conclusivo che gran parte di tale somma in contanti, se non tutta, sia finita nella disponibilità dei pubblici ufficiali nigeriani che hanno reso possibile gli accordi illeciti”. E gli imputati, per i giudici, non hanno “contribuito a tali illeciti pagamenti”.
I giudici lanciano una stoccata alla procura: “Risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati”. Armanna, ex manager licenziato dalla compagnia petrolifera italiana, poi diventato grande accusatore e valorizzato per le sue dichiarazioni dai pm, secondo la corte aveva intenzione “di ricattare i vertici Eni, lasciando chiaramente intendere a Piero Amara che le sue dichiarazioni accusatorie avrebbero potuto essere modulate da eventuali accordi, facendo un chiaro riferimento a Descalzi”. Inoltre ritengono che Armanna, le cui dichiarazioni sono state valorizzate dall’accusa, avrebbe orchestrato “un impressionante vortice di falsità” per “gettare fango”. Ma non solo i giudici parlano di “evidente irritualità della richiesta” che imporrebbe “valutazioni che non competono a questo Tribunale” per ‘replicare’ alla Procura di Milano che tentò di valorizzare le dichiarazioni di Piero Amara, che aveva gettato un’ombra sugli stessi giudici parlando di “interferenze da parte della difesa Eni”. L’aggiunto De Pasquale e il pm Spadaro, infatti, il 5 febbraio 2020 chiesero ai giudici di sentire Amara, dopo che avevano inviato quelle dichiarazioni a Brescia, dove fu aperto e archiviato un fascicolo.
I giudici fanno notare che per i pm erano di “estrema rilevanza” le affermazioni “di Armanna”, “a proposito del tentativo dei vertici Eni di indurlo a ritrattare le proprie dichiarazioni”. E così, scrive il collegio, dopo un processo che durava già da “oltre due anni” nel febbraio 2020 la Procura chiese al Tribunale di ammettere “l’audizione di Piero Amara”, legato ad Armanna, su una serie di punti riguardanti “i tentativi di inquinamento delle prove nel corso delle indagini preliminari“. Fatti questi su cui la stessa Procura aveva “aperto un procedimento fin dal 2017”, ossia il fascicolo sul ‘falso complotto Eni’, non ancora chiuso e pure al centro di uno scontro, sulla gestione proprio delle posizioni di Amara (ha reso anche le note dichiarazioni sulla loggia Ungheria) e di Armanna, tra il pm Paolo Storari, da una parte, e l’aggiunto Laura Pedio e il procuratore Francesco Greco, dall’altra. I giudici spiegano i motivi per cui non hanno ammesso la testimonianza di Amara, che era anche basata, per i pm, su quelle dichiarazioni su presunte “interferenze” sugli stessi giudici I pm, a detta del Tribunale, volevano portare una “nuova prova” non “assolutamente necessaria” nel processo sulla presunta corruzione. I fatti “accaduti durante le indagini”, scrivono i giudici, “e le eventuali responsabilità conseguenti saranno chiarite dall’indagine” sul ‘falso complotto’. Tuttavia, “è indubbio che tali profili in nulla potrebbero incidere né sulla valutazione di inattendibilità di Armanna né, più in generale, sulla posizione degli imputati” del caso Nigeria.