Vuole farsi conoscere al mondo come un filantropo attento al clima, un miliardario svizzero che elargisce donazioni per le giuste cause. In Italia, e in particolar modo a Casale Monferrato (Alessandria), continua a essere il proprietario dell’Eternit, la fabbrica di cemento-amianto che ha inquinato l’ambiente e provocato tumori mortali e morti con cadenza settimanale. Oggi Stephan Schmidheiny, 78 anni, assistito dagli avvocati Guido Carlo Alleva e Astolfo Di Amato, veste di nuovo i panni dell’imputato: a Novara, davanti alla Corte d’assise, comincerà il processo per omicidio volontario con dolo eventuale per la morte di 392 persone per i tumori provocati dall’asbesto. È solo una parte dei decessi provocati a Casale Monferrato, dove – secondo studi epidemiologici – in questi anni e fino al 2024 circa ci sarà il picco dei casi di tumore. Da questo centro del Monferrato soltanto un pullman di cittadini partirà per seguire l’udienza che si terrà nell’aula magna dell’Università del Piemonte Orientale a Novara, in numero inferiore rispetto a quanti assistevano al primo processo torinese. I tempi sono cambiati: non è soltanto per via della pandemia e delle limitazioni al pubblico, ma è soprattutto per i segni lasciati dal proscioglimento per prescrizione stabilito dalla Corte di Cassazione il 19 novembre 2014.
Quel giorno i giudici del Corte suprema stabilirono che l’accusa di disastro colposo formulata dalla procura di Torino (pm Raffaele Guariniello, Gianfranco Colace e Sara Panelli), un’accusa che aveva retto i primi due gradi di giudizio portando alla condanna a 18 anni per Schmidheiny, era prescritta perché secondo loro il reato era stato commesso fino al 1986, anno in cui gli stabilimenti dell’Eternit in Italia hanno chiuso, e quindi non era in corso, come invece ritenevano le prime due sentenze sulla base dei tanti recenti casi di mesotelioma, un tumore ai polmoni che compare molti anni dopo aver respirato le fibre di amianto. In attesa della definizione del primo processo, la procura di Torino indagava sui decessi avvenuti in seguito ipotizzando un altro tipo di reato, cioè l’omicidio volontario con dolo eventuale: so che le mie azioni o le mie omissioni (nella fattispecie l’utilizzo dell’amianto e la mancanza di misure di sicurezza) potrebbero provocare la morte di qualcuno, ma non faccio nulla per evitarlo.
Approdata all’udienza preliminare con questa accusa, l’indagine era stata “spacchettata” dal gup Federica Bompieri che ha derubricato i fatti in omicidio colposo (meno gravi dal punto di vista delle pene) e stabilito la competenza territoriale di quattro tribunali diversi: Torino per i morti di Cavagnolo, Napoli per quelli legati all’area di Bagnoli, Reggio Emilia per quelli di Rubiera e infine Vercelli per quelli di Casale Monferrato.
A Torino Schmidheiny è stato condannato in primo grado a quattro anni di reclusione per la morte di un operaio e una casalinga, a Napoli è in corso un processo. Nulla si sa del fascicolo di Reggio Emilia. Quello che comincia oggi a Novara è quello numericamente più importante poiché a Casale Monferrato c’era lo stabilimento principale dell’Eternit in Italia e, soprattutto, l’amianto si è diffuso nell’ambiente sia per la lavorazione, sia perché il materiale di scarto veniva ceduto per i lavori domestici. In questa maniera, moltissime persone, non soltanto gli operai, ma anche i loro familiari, hanno respirato le fibre killer che ha innescato la malattia e poi la morte: i 392 decessi per cui si tiene il processo riguardano 62 ex dipendenti e i restanti sono “vittime ambientali”. “Ogni settimana a Casale Monferrato c’è un morto per mesotelioma – spiega Bruno Pesce, coordinatore dell’Associazione familiari delle vittime dell’amianto –, mentre ogni anno nei paesi limitrofi si registrano un’altra ventina di decessi”.
Schmidheiny era stato rinviato a giudizio dal giudice per l’udienza preliminare di Vercelli, tribunale competente sull’area di Casale Monferrato. Pochi giorni prima di quella decisione l’imprenditore aveva rilasciato un’intervista alla Neue Zürcher Zeitung Sonntag, edizione domenicale del quotidiano di Zurigo, a cui confidava: “Mi sono reso conto di provare dentro di me un odio per gli italiani e che io sono il solo a soffrire per questo. Ho lavorato in modo mirato sulla situazione. E quando oggi penso all’Italia provo solo compassione per tutte le persone buone e oneste che sono costrette a vivere in questo Stato fallito”. Al giornale spiegava che “per risolvere il problema dell’amianto abbiamo fatto tutto il possibile e quanto era ragionevolmente esigibile secondo lo stato delle conoscenze di allora”. Una spiegazione che Schmidheiny non ha mai fornito dal vivo ai magistrati italiani, né ai cittadini.
Sarà un processo molto complesso, visto l’andamento delle sentenze in materia di morti da amianto. “Noi ci auguriamo che il sistema giudiziario italiano affermi la giustizia dopo un ritardo incredibile e dopo anni di lavoro dei magistrati di Torino – continua Pesce –. Il disastro teneva conto della condotta dei proprietari, ma la Cassazione ha dimostrato, sia per le lacune normative, sia per gli spazi interpretativi, di preferire il diritto alla giustizia. È giusto pensare al diritto, ma viene da chiedersi perché si pensi sempre soltanto a quello degli imputati e non ai diritti delle vittime. Tra l’altro, ha dichiarato il reato prescritto prima ancora che si verificasse il picco dei casi di mesotelioma, previsto per questi anni”.
Alcuni familiari delle vittime non hanno avuto nessun risarcimento, mentre altri – dopo la sentenza definitiva – hanno avuto qualcosa: “I legali di Schmidheiny hanno offerto cifre modeste e molte persone le hanno accettate rinunciando a eventuali cause contro di lui, le sue società, i suoi familiari e i suoi eredi”, prosegue Pesce. Lui e l’Afeva non perdono però la fiducia nella giustizia: “Non so quando arriveremo alla fine, ma mi auguro che al termine di tutto alcuni casi non siano ancora prescritti. Spero possano esserci sanzioni capaci di dire che non si doveva fare così e non si deve fare così, né in Italia, né nel resto del mondo”.