Per ricordarmi che la mafia è una “montagna di merda” non mi serve andare indietro di 30 anni ed evocare le terribili stragi di Palermo, mi basta pensare a quella mamma di cui abbiamo letto la scorsa settimana che, stanca di vedere i suoi figli continuamente umiliati e sua figlia costretta a prostituirsi per pagare i debiti di droga, ha trovato il coraggio di denunciare due rampolli della famiglia Spada di Ostia. La mafia, in ogni sua declinazione, è abominio, violenza, abuso.
Lo Stato ha il dovere di liberare l’Italia dalle mafie, ha il dovere di confortare le vittime della loro violenza, ha il dovere di impegnarsi fino in fondo perché questi crimini odiosi non accadano più e questa è giustizia. Sulla vicenda Brusca rimando senz’altro alle parole di don Luigi Ciotti, di Gian Carlo Caselli, di Luciano Violante, di Maria Falcone nelle quali mi riconosco. Mi preme sottolineare un altro aspetto della questione.
Per sconfiggere una organizzazione criminale bisogna prima di tutto volerlo (!) e poi bisogna avere le informazioni giuste. È banale, ma è il punto di partenza del ragionamento: le organizzazioni criminali sono organizzazioni segrete, per batterle bisogna “accendere la luce” e la luce è l’informazione. Da chi è composta l’organizzazione? Dove si nascondono i latitanti? Dove vengono tenute le armi? Quali delitti sono in fase di esecuzione? Come vengono riciclati i soldi? Quali alleanze con il mondo della politica? Eccetera… Il modo più semplice per avere le risposte a queste domande e farle a chi le sa. Cioè a qualche affiliato, pronto a fare il salto ed a contribuire alle indagini.
Quanto valgono le informazioni per lo Stato? Valgono al punto da stipulare un patto con il delinquente? Per Giovanni Falcone la risposta fu decisamente “sì” e da questo ragionamento nacque la legge che Falcone ispirò. Fin qui niente di nuovo. Ma attenzione: siamo nel 1991! Non esisteva nemmeno internet, non si mandavano mail, c’erano i primi telefoni cellulari (e Cosa nostra era già in grado di clonarli…), era insomma un “evo” fa sul piano delle tecnologie informatiche. Non c’erano tante altre strade per avere informazioni, bisognava proprio ottenerle da chi le aveva, in un modo o in un altro.
Oggi abbiamo strumenti inimmaginabili negli anni 80 (che sono l’anticamera della legge del 1991) per penetrare il muro di segretezza delle organizzazioni criminali e raccogliere elementi certi che possono trasformarsi in prove solide in processo. Dalla evoluzione delle banche dati digitali, alla loro interoperabilità, fino alla “sentiment analysis” e alla applicazione della Intelligenza Artificiale con finalità predittive, sono stati fatti passi avanti straordinari. Basta pensare al software “Molecola” sviluppato dalla Guardia di Finanza fin dal 2006, ai Sistemi “Odino” e Sicote in dotazione all’Arma dei Carabinieri, ai Sistemi “Mercurio” e Sari usati dalla Polizia di Stato, per avere una idea di come si muovano oggi investigatori e magistrati.
Forse ci sarà sempre bisogno dell’informatore vecchio stile. Sicuramente ci sarà sempre bisogno della legge sui collaboratori di Giustizia, perché sarà sempre possibile e certamente auspicabile che qualche affiliato decida di cambiare vita e affidarsi allo Stato, portando se stesso e la propria famiglia in salvo. Ma probabilmente il futuro della prevenzione e del contrasto delle organizzazioni segrete (e già soltanto per questo criminali!), passa dalle nuove tecnologie informatiche, dalla IA, da come sapremo svilupparla ed usarla. Anche per questo è così importante lo sforzo che si sta producendo a livello europeo per stabilire regole eticamente salvaguardanti i diritti fondamentali nell’utilizzo di questo nuovo, inaudito, potere di penetrazione della vita altrui.
Tra le “missioni” del Pnrr c’è anche quella della innovazione digitale, anzi è tra le più finanziate. Quanto di questo fiume di denaro servirà a renderci più liberi dal ricatto mafioso lo capiremo vivendo e facendo molta attenzione alla sua gestione. La società civile è mobilitata per tenere gli occhi aperti su questa straordinaria partita, non sarebbe male se nelle “strutture di coordinamento”, che ogni Amministrazione centrale e locale dello Stato dovrà approntare per governare le missioni di competenza, sedessero anche suoi rappresentanti. Perché non basta avere accesso alle informazioni, bisogna avere accesso al processo con il quale si formano le decisioni e da questo punto di vista non posso che chiudere rimandando all’allarme lanciato dal presidente dell’Anac, Giuseppe Busia.