Sia pure di misura, il candidato di “Perù Libre” Pedro Castillo ha vinto, confermando i sondaggi favorevoli, il ballottaggio alle elezioni presidenziali peruviane; sconfiggendo Keiko Fujimori, candidata della destra nonché figlia del dittatore che sta scontando una pena per gravi violazioni dei diritti umani – che dovrebbe obbligarlo a permanere in stato di reclusione per altri dodici anni, sempre che non venga indultato per motivi di salute.
La vittoria di Castillo e della coalizione di sinistra che presiede costituisce un fatto importante, specialmente per un Paese dove da tempo non si registrano governi di stampo chiaramente progressista. Il programma di “Perù Libre” presenta indubbiamente aspetti di grande interesse a partire dallo slogan “No mas pobres en un pais rico“, che indica chiaramente la strada della redistribuzione dei proventi derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali e dal netto indirizzo antimperialista e latinoamericanista. Così come di grande interesse è la biografia personale del nuovo presidente, che ha lavorato a lungo come maestro nelle zone più povere del Paese, dove non a caso ha ottenuto adesioni massicce e generalizzate.
Da notare come Castillo sia stato anche promotore e membro delle milizie contadine di autodifesa create per assicurare l’ordine nelle zone rurali, contrastando reati diffusi come l’abigeato e anche il terrorismo di gruppi come Sendero Luminoso. La sconfitta di quest’ultimo, autore di gravi crimini, è stata dovuta alla mobilitazione popolare e non già al terrorismo di Stato promosso da Fujimori padre, che lo sta pagando ora come accennato in galera, e del suo aiutante, il bieco ministro di polizia Montesinos. Vi sono peraltro significative analogie tra la situazione del Perù e quella della Bolivia, dove da tempo ormai, col breve intervallo del governo golpista spazzato via dal popolo e dalle elezioni, governa il Mas, espressione di una “nazione indigena e campesina” che si è espressa con forza anche nelle elezioni peruviane di cui stiamo parlando.
Castillo, che si definisce comunista, è del resto a sua volta espressione di un’intellettualità profondamente radicata nel popolo che in Perù vanta tradizioni importanti, a partire dalla figura di Carlos Mariategui, il Gramsci dell’America Latina.
La vittoria di Castillo e Perù Libre costituisce quindi un importante tassello di una nuova ondata democratica latinoamericana, che comincia a montare nuovamente a partire dalle elezioni cilene per l’Assemblea costituente e che potrebbe conoscere nuovi decisivi episodi in Brasile, dove Lula ha annunciato la sua candidatura contro Bolsonaro, e in Colombia, dove i sondaggi danno vincente la coalizione di sinistra capeggiata dall’ex sindaco di Bogotà Gustavo Petro. Tutte situazioni contrassegnate da corruzione ampia e diffusa e repressione brutale delle istanze popolari. Soprattutto in Colombia, dove le squadracce in divisa dell’Esmad e quelle in borghese di paramilitari e narcotrafficanti continuano a cercare di arginare la crescente indignazione delle masse ricorrendo in modo generalizzato e sfacciato all’omicidio e alla tortura.
Situazioni, specie in Brasile ma anche in Perù, contraddistinte altresì dall’inefficacia della risposta alla pandemia Covid, che proprio in Perù conosce le più alti percentuali di vittime, in netto contrasto coi successi ottenuti in materia da Cuba, ma anche da Venezuela e Nicaragua: tutti Paesi nei quali, nonostante le sanzioni illegittime imposte dagli Stati Uniti e nel caso di Venezuela e Nicaragua anche dall’Ue, il numero dei contagi e delle vittime risulta sorprendentemente limitato grazie a politiche preventive efficaci, che puntano sull’assistenza sanitaria capillare e diffusa, sulla disciplina sociale autogestita e sulle vaccinazioni di massa.
Potrebbe maturare ben presto, in questo quadro, un necessario rilancio delle politiche di integrazione regionale oggi indebolite dalla presenza di personaggi come Bolsonaro, Duque e Sebastian Pinera. Ciò appare tanto più auspicabile, a fronte delle incertezze dell’amministrazione Biden che, come su altri temi, oscilla tra spinte innovative provenienti dall’ala sinistra del partito democratico e piatta adesione alle tradizionali politiche di stampo imperiale. Per stimolare atteggiamenti costruttivi e realistici da parte di Washington occorre un’America Latina finalmente unita, dal Cile al Messico, nella difesa di elementari principi di diritto internazionale e della propria inviolabile dignità di Stati e popoli, storicamente calpestata dalla Casa Bianca almeno a partire dalla dottrina Monroe, che risale al 1812 e che Trump prima di finire nella pattumiera della storia aveva tentato con scarso successo di riesumare.
La vittoria dei popoli comporterà inevitabilmente la strada della carcerazione, sull’esempio di Fujimori, per governanti che hanno violato e continuano a violare i diritti umani in modo intollerabile, che essa avvenga per decisione della Corte penale internazionale o delle competenti autorità nazionali, nel rispetto del principio di complementarietà affermato dell’art. 1 dello Statuto della Corte medesima.